Giovani del 2000



Informazione per i giovani del III millennio numero 46 Settembre 2012

Direttore: Cav. Virgilio Moreno Rafanelli

Vice Direttore: Maurizio Martini

Redattori: Massimiliano Matteoni e Luigi Palmieri

Collaboratori di redazione: Giuseppe Lurgio e Natale Todaro

Redazione: Via Francesco Ferrucci 15 51100 - PISTOIA
Tel. 057322016
E-Mail: redazione@gio2000.it
Sito internet: www.gio2000.it

Tipologia: notiziario

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Firenze al n. 4971 del 26.06.2000

Gli articoli contenuti nel periodico non rappresentano il pensiero ufficiale della redazione, ma esclusivamente quello del singolo articolista.


ELENCO RUBRICHE

In questo numero:

Editoriale
Un doloroso saluto
di Maurizio Martini
Annunci
Progetto parla, un amico ti ascolta
di Patrizia Onori
Cucina
di Sonia Larzeni
Cultura
In memoria di Luciano Luzzi
A cura della redazione
Intervista a Mirella Fanunza
di Giuseppe Lurgio>
Hobby e tempo libero
Oman, il paese che non ti aspetti
di Gianfranco Pepe
Patologia
I capelli
di Maria Grazia Sales
Racconti e poesie
In un mondo antico e magico
di Antonella Iacoponi
Per dire grazie a Sergio Cammariere
di Mara Fiamberti
Riflessioni e critiche
Memorie di una giungla Politica
di Franco Vignali
Elogio al portafogli
Di Giuseppe Costantino Budetta
Per ridere un pò
di Giuseppe Lurgio

Editoriale

Una dolorosa scomparsa

Carissimi lettori.

Normalmente ormai da parecchio tempo, non sono io a stendere l’articolo di apertura del nostro periodico.
Tuttavia in questa occasione, ho sentito un forte bisogno di farlo.
Forse per un po’ di egoismo, forse però, per condividere con voi un dolore che mi ha colpito improvvisamente circa venti giorni orsono.
Chi segue dalla sua nascita il periodico,sicuramente ricorderà che per qualche numero, furono pubblicati interessanti articoli sui nativi d’america. Tale pubblicazione,sarebbe ripresa da questo numero, e sarebbe stata curata sempre  dalla stessa persona, il Signor Luciano Luzzi.
Adesso giungo al puntO PER ME MOLTO TOCCANTE.
Luciano,per 21 anni è stato mio collega d’ufficio, svolgendo il ruolo di messo notificatore. Luciano aveva una grande passione per la storia degli indiani d’america ed era un profondo conoscitore di tutte le loro tribù, e le epiche battaglie che avvennero con i conquistatori bianchi.
Proprio poche settimane fa, ci siamo incontrati in ufficio per prendere gli ultimi accordi al fine di ricominciare le pubblicazioni. Purtroppo, quel pomeriggio stesso, il nostro Luciano, mentre se ne stava sul suo terrazzino di casa a cercare un po’ di fresco, è stato colpito da infarto fulminante, e ci ha lasciati in pochissimi istanti.
Per me personalmente, è stata una notizia che per vari giorni mi ha fatto stare male, male davvero, sia fisicamente che psicologicamente.
Con luciano ho condiviso centinaia o forse migliaia di ore passeggiando, parlando, e facendomi raccontare delle sue conoscenze su questa materia, ma anche su altri temi, quali il medioevo, i grandi monumenti rinascimentali ecc. Luciano fondamentalmente non era un credente, ma spesso amava dirmi, che dopo la sua dipartita, sperava di correre sui prati verdi di manitù.
Io, con un groppo alla gola, da questo periodico, auguro a questa persona tanto sfortunata fin dalla nascita, di correre su quei prati verdi che per molte volte ha nominato. Da non dimenticare, che pur avendo sofferto da piccolo di poliomielite agli arti superiori, Luciano aveva vinto moltissime medaglie per aver percorso praticamente tutti i sentieri sulle dolomiti.
Luciano. Non solo io, ma credo tutti i nostri affezionati lettori, vorranno a loro modo inviarti un pensiero, una preghiera, o qualsiasi altra cosa. Tu non ci hai mai creduto, ma erano in molti a volerti bene. A conclusione di queste poche righe, ho deciso in accordo con la redazione, di riproporre  nella rubrica cultura, un estratto di quei famosi articoli che furono pubblicati  molti anni fa su questo stesso periodico.
Ciao lucio, e scrivo questa abbreviazione che usavo sempre quando ti chiamavo,  con una forte commozione e le lacrime agli occhi.

Maurizio

 

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Progetto Parla, un amico ti ascolta

di Patrizia Onori.

Stà per partire un progetto veramente interessante! Si chiama parla, un amico ti ascolta.
Il progetto non vorrà assolutamente sostituire nessun numero verde e non sarà un progetto di telefono amico, ma sarà esclusivamente finalizzato alla conversazione con anziani o meno anziani, che sono soli o semplicemente annoiati.
Si entrerà in una stanza virtuale telefonica, seguendo la procedura tolkyoo, quindi in base alla città bisognerà digitare i numeri che sono riportati nell'apposita circolare dell'uici almeno che non si disponga di un abbonamento a canone fisso quindi potrà essere digitato qualsiasi numero,. dopodichè, per entrare nella stanza virtuale, una voce guida chiederà di digitare un codice che sarà richiesto per l'occasione e comunicato sempre nella circolare.
Gli operatori saranno disponibili in diversi orari della giornata e daranno disponibilità di una o due ore a settimana dove saranno a disposizione di chi vorrà chiamare per fare una chiacchierata, per avere un consiglio o per avere semplicemente un po' di compagnia.
Speriamo che quest'iniziativa venga apprezzata, ma speriamo soprattutto che possa dare un momento di sollievo e di conforto a chi è solo.

 

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Cucina

di Sonia Larzeni

Salve amici!

Prima di proseguire con le ricette che ho preparato per voi voglio fare una premessa e una proposta!

Ho vari menù in serbo per voi,però mi piacerebbe anche che questa rubrica fosse come una grande cucina dove ogniuno ha la possibilità sia di cucinare che di mangiare!
Tutti abbiamo una ricettina che ci riesce proprio bene,o magari vorremmo mangiare un certo alimento preparato in modo diverso.

Ecco perchè ho pensato di realizzare una rubrica interattiva.

Se mi scrivete a:

sonia74@winguido.it

Indicando come oggetto:
In cucina.
Nel testo scrivete solo nome,alimenti che non piacciono o che vorreste gustare, e se l'avete una ricetta particolare che avete già sperimentato.
Infine fatemi sapere che menù vorreste gustare,ad esempio:a base di carne,di pesce,o vegetariano.
Sbizzarritevi nel suggerirmi i menù e io piano piano trovo le ricette e le publico!
Vi aspetto in tanti!

Menù speziato.

Ecco per voi un menù speziato adatto alla stagione autunno-inverno.

Prima di iniziare prepariamo un impasto per il pane:

Ingredienti:
Una confezione di farina bianca.
Acqua tiepida.
Un pezzettino di lievito di birra da 25 grammi,olio,sale,curry.
Preparazione:
Mettere in una capiente ciotola la farina e il lievito sbriciolato,mescolare bene aggiungendo l'acqua un poco alla volta e completate con abbondante curry.
Formate una palla con le mani infarinate,dovete riuscire a togliere l'impasto dalla ciotola, e metterlo su un tagliere infarinato,dopo di ciò impastare bene con le mani per 10 minuti e far lievitare per almeno 7-8 ore in ambiente tiepido.
Io non metto mai canovacci sull'impasto in quanto spesso si attacca allo stesso.

Dopo 4 ore di lievitazione iniziate a dividere l'impasto in tante mini palline, e disponetele, su un tagliere dove possano stare ben distanziate l'una dall'altra perchè nelle altre 4 ore lieviteranno ancora.

Antipasto:
Pizzette al formaggio piccante.
Trascorse le 8 ore iniziamo a fare le pizzette.
Prendiamo un po di impasto tra le mani e appiattiamolo formando un disco non troppo sottile e che possa contenere al centro almeno 2 ingredienti.
Quindi non fate i dischetti troppo piccoli!
Disponete le pizzette su una teglia da forno,
Poi preparate il formaggio piccante in questo modo: 250 grammi di ricotta che vanno mescolati a un po di peperoncino e allo zenzero e 2 cucchiai di olio in una ciotola, fino a formare una profumatissima crema.
Spalmate sulle pizzette un po di salsa di pomodoro e poi il formaggio picante infornate le pizzette a 200 gradi per una mezzora circa..Sfornate, e servite!

Primo piatto:
Farfalle al profumo di zenzero:
Cuocete la pasta al dente,scolatela, e rimettetela nella pentola di cottura.
Aggiungete olio o burro secondo il vostro gusto e la polvere di zenzero a piacere.
Rimettete sul fuoco e fate amalgamare il tutto e in ultimo aggiungete grana grattuggiato.Servite calde!

Secondo piatto:

Salmone con la camicia stracciata:

Ingredienti:
Curry quanto basta,
4 uova,
2 scatolette di salmone al naturale,
olio. sale e pepe quanto basta.

Preparazione:

In una teglia antiaderente mettete un po di olio, e strapazzate le uova.
Fate cuocere a fuoco bassissimo rimestando con la forchetta le uova e aggiungendo un po di curry,il pepe, e agiustando di sale.
Spegnete la fiamma, e tenete in caldo.
In una pentola antiaderente ponete il salmone al naturale con un filo di olio completando con il restante curry,e pepe.
Fate rosolare leggermente il samone, cercando di non romperlo.

Ora prendete i piatti da portata, ponete sopra ognuno di essi un po di uovo strapazzato e una bella fetta di salmone e poi, ancora sopra al salmone altro uovo.

Dolce:
Questo dolce, è un semplicissimo strudel di mele, al quale aggiungeremo un po di cannella!
Ingredienti:

Pinoli e uvetta passa a piacere,un rotolo di pasta sfoglia gia pronta, 250 grammi di mele, zucchero e cannella quanto basta.
Preparazione:
Fate quocere le mele con la buccia e con un po di zucchero.
Io le faccio quocere nel microonde,ma se volete potete anche cuocerle in un pentolino con due dita d'acqua,2 cucchiai di zucchero e le mele intere.

Appena cotte le mele lasciatele raffreddare,quindi togliete la buccia e mettete la polpa in una terrina aggiungendovi i pinoli, l'uva passa,la cannella in polvere e lo zucchero mescolando bene il composto.
Stendete la sfoglia su una placca da forno precedentemente inburrata,quindi versatevi il composto facendo attenzione a non appesantire troppo la sfoglia in quanto si potrebbe rompere ma stando anche attenti a non rimanere spazi vuoti altrimenti lo strudel risulteràsvuotato.

Dopo che avete coperto la superfice della sfoglia cercate di arrotolarla.Sigillate tutti i lati e tutte le eventuali crepe che si sono formate.
Infornate a 180 gradi per 30 minuti.
Buon appetito a tutti!

 

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Cultura

In memoria di Luciano Luzzi

Storia degli indiani d’America, usi e costumi

 

La casa ci fornisce informazioni sul tipo di vita e sullo stato sociale di un popolo.
Generalmente si associano indiani e tende, mentre la maggioranza degli indiani viveva in case. Alcuni indiani vivevano in caverne, soprattutto in Arizona.  Ma molti utilizzavano le caverne come rifugi per l’inverno.
Quando saranno perseguitate le tribù COMANCHE e APACHE si rifugeranno in caverne difficilmente accessibili, abbandonando i loro accampamenti in pianura.
Nelle regioni delle steppe o del deserto, come il Grande Bacino, la scarsità di vegetali non permetteva la costruzione di solide case, gli SHOSHONI, gli UTE e i PAIUTE si riparavano in capanne fatte di cespugli intrecciati.
Nelle pianure i popoli cacciatori avevano bisogno di un habitat facile da spostare per poter seguire le mandrie. Questi popoli utilizzavano le pelli degli animali uccisi per fabbricarsi dei Tepee.
Queste caratteristiche tende dei nomadi delle pianure avevano come armatura cinque o sei lunghe pertiche sulle quali gli indiani poggiavano pelli di bisonte o daino, in seguito pelli di vacche o teli. In cima al tepee, accanto al foro per il fumo, c’erano le alette d’aerazione. All’interno il terreno era ricoperto di rami di salice o di betulla sui quali, d'inverno, si stendevano pellicce.
Il focolare era al centro, cosicché il fumo usciva dal foro praticato in cima alla tenda. Il mobilio era formato da sacchi di pelli, da pellicce, da oggetti di cucina di legno. La parte esterna era decorata con motivi simbolici e religiosi.
Vicino alla tenda si trovava la rastrelliera per essiccare la carne, la madia della famiglia, poggiata su alti pioli per impedire agli animali di raggiungerla.
Molte tribù facevano uso alternativo di una casa fissa per l’inverno ed una mobile per l’estate. Per esempio i CHIPEWYAN, che vivevano d’estate nella tundra sotto tende in pelli di Caribù, e d’inverno ritornavano nella foresta per abitare in case di legno. Invece gli HIDATSA, nella vallata del Missouri,
coltivatori d’estate, vivevano in case di legno, mentre dovendo cacciare il bisonte d’inverno utilizzavano il tepee. Per coprire le loro tende, gli indiani del Canada utilizzavano cortecce d’alberi, soprattutto la corteccia di betulla.
Questa corteccia serviva per la costruzione di una capanna rettangolare, la WIGWAM. L’ossatura era costituita da pioli infissi nel terreno, ricoperti da
larghe cortecce di betulla o olmo.
D’inverno queste cortecce erano sostituite da stuoie di giunco intrecciate o da foglie di typhos, che davano più calore. Il focolare era al centro: tutt’intorno venivano costruite delle piattaforme come giacigli. In queste capanne non c’erano fori nel tetto per l’uscita del fumo, che usciva bene o male dagli interstizi di esso: l’interno era quindi perennemente fumoso, le pareti ben presto tappezzate di fuliggine; per non morire asfissiati dormivano faccia a terra. Molto più elaborata era la lunga casa degli IROCHESI.
Chiamata ONGWANONSIONNA da essi. Questa casa di forma rettangolare molto lunga, dai 10-20 metri larga dai 3 ai 9 metri e alta dai 4 ai 5 metri.
L’ossatura era costituita da pioli, base della costruzione, da lunghe pertiche verticali che formavano il tetto a forma di culla. Il tutto veniva ricoperto con strati di corteccia uniti tra loro per formare il muro. La casa non aveva finestre, solo due aperture a ogni estremità per la fuoriuscita del fumo.
All’interno, erano allestiti dei compartimenti per le due o tre famiglie che vi abitavano; si disponevano dei soppalchi su cui si poteva dormire e poggiare dei cibi. Vi era una sola porta d’ingresso che veniva chiusa con sbarre.
I villaggi Irochesi raggruppavano un centinaio di case, erano circondati da una solida palizzata e costruiti sulle rive di un corso d’acqua o di un lago.
Sulla costa del Pacifico, i TLINGIT utilizzavano il cedro delle immense foreste che ricoprivano il territorio interno. Con utensili in osso o selce riuscivano ad abbattere questi alberi e a ridurli in legna per la costruzione delle case.
Drizzavano diversi tronchi uno di fronte all’altro, alzavano le pareti con legna e con lo stesso materiale ricoprivano il tetto. Queste case erano molto ampie:
15-20 metri di lunghezza. Gli ambienti per le famiglie erano disposti intorno a un grande ambiente comune dove c’era il focolare. I tronchi negli angoli erano scolpiti come i pali totemici all’esterno. Erano di circolare con un diametro di 15-20 metri. Le fondamenta erano scavate a 50 - 70 centimetri nel suolo; dal
suolo si alzavano travi di circa 2 metri d’altezza che sostenevano all’esterno la terra che formava le mura. Travi traversali formavano il tetto. Il tutto ricoperto da uno strato di argilla che asciugando induriva.
Quanto ai MANDAN, pur essendo tribù delle pianure abitavano in case di terra. I PUEBLOS facevano uso di mattoni che ricavavano dal fango misto a paglia; essiccati al sole, servivano per formare le pareti. I loro villaggi sono costituiti da case di pietra e calcina, grandi; le più piccole erano a due piani con un tetto piatto, le altre di tre, quattro piani e quelle del signore di cinque, tutte ben allineate; e sull’architrave delle case più importanti spiccavano molte decorazioni in turchese. Le case erano legate le une alle altre, con grandi terrazze alle quali si accedeva per mezzo di scale; viste dall’esterno sembravano un solo edificio.
I NAVAJO costruivano le Hogan, capanne di legno ricoperte d’argilla.
La maggior parte delle tribù indiane, accanto al villaggio costruiva un "sudario". Era una capanna bassa, fatta ad archi intrecciati, ricoperta di pelli, oppure una semplice capanna ben chiusa. Si lanciava acqua su pietre surriscaldate che sprigionavano vapore facendo sudare coloro che si rinchiudevano all’interno. Poi si usciva per tuffarsi in un corso d'acqua. Questa sauna indiana non serviva solo per l’igiene del corpo, ma rispondeva anche a un bisogno di purificazione necessaria per raggiungere certe visioni.
I pellirosse erano divisi in numerose tribù, ognuna delle quali aveva proprie tradizioni, proprie leggi e parlava un dialetto spesso incompressibile alle altre. Alcune tribù, in caso di particolari necessità, si riunivano in confederazioni.
La tribù era governata da un capo il quale, però, non godeva di un’autorità assoluta: egli era, più che altro, l’esecutore dei voleri del suo popolo.
Gli uomini della tribù, riuniti attorno al fuoco del consiglio, esprimevano la loro volontà, anche le donne e i giovani presso alcune tribù, partecipavano a
queste sedute. Prevaleva però sempre il parere degli anziani, più ricchi d’esperienza e perciò più saggi. Una volta presa una decisione, tutti seguivano gli ordini del capo con la massima disciplina. Il capo tribù manteneva la sua carica finché l’età glielo consentiva, poi designava lui il suo successore, che poteva essere suo figlio o sua figlia. Questa nomina, però, doveva essere accettata da tutti i notabili della tribù, ossia da quei guerrieri che avevano compiuto il maggior numero di imprese  gloriose. Se essi indicavano come capo successore un altro guerriero che s’era mostrato più coraggioso dell’erede legittimo, quest’ultimo doveva senz’altro cedergli il titolo.
Nella società indiana delle praterie, certe famiglie possedevano più cavalli di altre e avevano tepee più grandi. Ma ciò non impediva ad un ragazzo di famiglia povera la conquista del benessere, o rubando cavalli (ai nemici e ai bianchi) o prendendoli in battaglia; né di fare un matrimonio in una famiglia ricca. I benestanti sentivano l’obbligo sociale di dare grandi feste e fare bei regali.
Tra gli indiani delle praterie nessun capo aveva autorità suprema sul suo popolo.
Ai capi conosciuti come buoni mediatori di pace era spesso richiesto di arbitrare dispute.
Ma le questioni serie erano spesso risolte in un concilio.
Le liti all’interno della tribù venivano usualmente risolte per mezzo della persuasione.
L’omicidio era raro, ma quando avveniva i Cheyenne, di regola, esiliavano il colpevole dalla tribù. I Crow e altri  costringevano l’assassino a risarcire con merci o cavalli la famiglia della vittima. Chi agiva contro il benessere della tribù poteva venire privato dei suoi beni, essere esiliato o anche messo a morte.
Fin dall’infanzia il bambino sognava il giorno in cui avrebbe cavalcato alla caccia o alla guerra insieme agli uomini. All’età di sette o otto anni era già un esperto cavaliere e gli veniva affidato il branco domestico.
Fratelli ed amici si esercitavano al tiro e già a dieci o dodici anni cacciavano insieme i vitelli dei bisonti.
Intorno ai diciotto anni era loro permesso di aggregarsi alle bande sul sentiero di guerra e di rendere servigi ai guerrieri adulti. Gli amici cercavano di entrare nelle stesse società militari, così da poter impugnare insieme il tomahawh e, se necessario, morire insieme. Non esistevano rituali elaborati per l’inizziazione del ragazzo alla virilità. Appena dimostrava di
essere pronto egli prendeva semplicemente il posto che gli competeva.
A quell’età, cominciava a corteggiare una ragazza, anche se non si sarebbe sposato prima di possedere qualche cavallo.
Arrivato all’età di quarant’anni egli non partecipava più alle scorrerie guerresche, ma entrava a far parte del consiglio degli anziani, il cui parere era richiesto ed ascoltato da tutti.
Gli indiani non mostravano facilmente le loro emozioni, ma la morte d’un valoroso guerriero  dava luogo a dimostrazioni di pubblico cordoglio. I ragazzi indiani imparavano a cavalcare all’incirca quando incominciavano a camminare. Quando erano alquanto cresciuti, gli uomini della tribù, richiedevano il loro aiuto per domare i cavalli selvaggi catturati nelle praterie. La speranza dei giovani era d’arrivare a possedere molti cavalli, poiché l’agiatezza si valutava in numero di cavalli.
I Sioux tenevano in alto conto i cavalli, che chiamavano "SUNKA WAKAN" (cani misteriosi) e consideravano animali sacri.
Quando un guerriero moriva, le sue donne collocavano il cadavere sulla biforcazione di un albero o sopra un catafalco.
Intorno gemendo di dolore, vegliavano i parenti. Quanto al cavallo del guerriero, spesso veniva sacrificato, oppure gli si rasava la criniera in segno di lutto.
Per molti l’immagine più comune degli indiani è rappresentata da un gruppo di bellicosi giovani a cavallo con i loro caschi di piume dalle lunghe bande fluttuanti.
Ma questa non è la realtà. Benché il casco di guerra fosse usato da diverse tribù, esso veniva messo solo in speciali cerimonie. Occorreva molto coraggio per metterlo in battaglia, perché chi lo portava era fatto segno di speciali attenzioni da parte del
nemico. Nei mesi freddi, molti guerrieri si coprivano con un caldo berretto di pelo munito di para orecchi. Più che al copricapo, l’indiano dedicava la sua attenzione alla chioma.
Come Sansone, egli credeva che la forza e la vita venisse dai capelli. In tempi remoti, gli indiani li lasciavano crescere e scendere sciolti; ma in tempi più recenti sia gli uomini che le donne incominciarono ad intrecciarli. L’acconciatura del capo poteva indicare la tribù di appartenenza di un indiano. I CROW avevano un’acconciatura alta.
I PAWNEE si rasavano il cranio, conservando solo una cresta di capelli dal centro della fronte alla nuca.
Gli OMAHA avevano un grosso ciuffo che dividevano in treccine ornate in penne.
Non tutti gli indiani scotennavano i nemici. Molti si preoccupavano assai più di conservare i propri capelli e arrivare a bruciare quelli che si tagliavano.
Il vestiario era minimo, specialmente durante la caccia e sovente si riduceva a una semplice brachetta. Talvolta vestivano camiciotti di daino o camicie di
cotone o di franella, acquistate dai bianchi. Nei mesi freddi indossavano pelli  di bisonte.
Le donne portavano semplici tuniche e gambiere di stoffa o di daino lunghe sino al ginocchio. Mai sfoggiavano i loro costumi fantasiosi per dedicarsi ai  lavori giornalieri.
D’estate i bambini sotto i dieci anni andavano completamente nudi.
L’abito indiano da cerimonia era molto decorativo. Camicie e gambiere non erano forse tanto importanti quanto  l’acconcia-tura dei capelli, ma le casacche di guerra erano particolarmente elaborate e ricche di decorazioni suggerite dai sogni, che si riteneva proteggessero dai pericoli. Poteva trattarsi di semplici strisce orizzontali, ma più spesso il disegno era fantasioso e tramato con aculei di porcospino o perline colorate. Al collo e alle maniche si appendevano pelli di ermellino. Le donne decoravano i loro vestiti da cerimonia con denti di alce, tenuti in gran pregio sia dai CROW sia dai PIEDI NERI.
Sullo stesso vestito di uno stesso animale venivano applicati solo due denti, e poiché c’erano vestiti che ne sfoggiavano fino a trecento se ne deduce che soltanto la moglie di un provetto cacciatore poteva averne a sua disposizione. Le donne meno fortunate dovevano ripiegare sugli aculei di porcospino le perline, se non volevano servirsi di imitazioni in osso.
Quando gli scambi con i bianchi divennero comuni, molti costumi femminili vennero decorati con scampoli di franella rossa, importati in genere dall’Inghil-terra. Come calzatura, gli indiani per secoli avevano portato il semplice pezzo di pelle ravvolto al piede che viene detto "mocassino". Normalmente i mocassini non erano decorati, salvo quelli da mettere con gli abiti da cerimonia. Per i mesi freddi si utilizzava la pelliccia invernale del bisonte, con il pelo rivolto all’interno. Come si è detto l’antico mocassino era costituito da un solo pezzo di pelle avvolto al piede e allacciato alla caviglia; ma quando gli indiani videro le scarpe a suola dura dei bianchi cominciarono a farsi mocassini di due pezzi, costituiti, cioè, da una tomaia morbida cucita ad una suola di cuoio duro.
Acconciatura: I capelli avevano, per gli uomini indiani, un significato simile ai genitali, motivi
per cui davano grande importanza alle acconciature, che si presentavano diverse da regione a regione.
I Pawnee si rasavano completamente, lasciando solo in mezzo al cranio una cresta di capelli lunghi (o ciuffo di capelli lunghi = ciocca dello scalpo), sulla
quale spalmavano tanto grasso da farle assumere l’aspetto di un lungo e rigido corno. Molte tribù orientali presentavano acconciature simili. I Dakota avevano una scriminatura centrale e raccoglievano i capelli a treccia,
ornandoli con nastri di stoffa o di pelle.
Le tribù nordoccidentali come Nez Percé portavano i capelli lunghi e sciolti senza scriminatura. Nel sud-ovest molti indiani portavano i capelli corti sulla fronte e la coda di cavallo.
Le donne Hopi portavano i capelli raccolti a crocchia su di un orecchio, a rappresentare il fiore di "squash" (simbolo di illibatezza), fino al matrimonio. Una volta maritate raccoglievano i capelli in tante trecce. Per lavarsi i capelli facevano uso del sapone estratto dalla radice di yucca. (= Copricapo a cuffia) ornamento del capo costituito da penne in uso presso indiani di molte tribù, originariamente portato dalle tribù dei Sioux e più tardi adottato da altri indiani. Il Bonnet era formato da una calotta priva di falde di pelle morbida, sulla quale era applicato un nastro dal quale partivano le penne d’aquila, che potevano essere d’ala, di coda o anche pettorali. Qualche volta con il Bonnet si portava il cosiddetto "trailor", cioè due strascichi laterali di penne che continuavano quasi fino a toccare terra.
Borsa degli Amuleti: oggetti  ricchi di forze magiche (pipe, mummie di uccelli) che ogni individuo portava con sé in una borsa di cuoio come protezione e aiuto in guerra e a caccia.
Breechcloth: (approssimativa-mente: grembiale da portarsi sui fianchi), anche: Brecch-clout, pezzo di stoffa lungo e stretto (anche di pelle morbida di vitello di bufalo), che veniva passato fra le gambe e ripiegato davanti e dietro intorno alla cintura natura, cosicché da essa, così nascosta, pendevano i due capi della stoffa. Venivano portati da soli o con i Leggings.

 

            L’autunno era la stagione delle grandi cacce: la tribù allora si spostava continuamente, in cerca di mandrie dei bisonti, che galoppavano verso sud. C’erano mandrie così numerose che erano lunghe persino 70 km e continuavano a sfilare anche per cinque giorni di seguito. I cavalieri volteggiavano ai fianchi della mandria e con frecce quasi sempre infallibili colpivano gli animali all’attaccatura della spalla. Un metodo più audace per abbattere la preda era quello di balzare dalla groppa del cavallo alla groppa del bisonte piantandogli il coltello nella gola.
I pellirosse sapevano utilizzare le parti del corpo di questo animale:

  1. con la pelle ancora ricoperta di peli facevano: letti, coperte, mantelli;
  2. dopo averla rasata, la usavano invece per fare: tende, piroghe, scudi, abiti e calzature;
  3. le ossa servivano per preparare utensili: pale, arpioni, punte di frecce, aghi e ornamenti;
  4. i tendini e gli intestini si trasformavano in corde per archi, in lacci e in legature;
  5. le corna erano usate come recipienti;
  6. gli zoccoli davano una gelatina che serviva come colla;
  7. il cervello serviva per la concia della pelle;
  8. la carne, tagliata a piccoli pezzi, affumicata e riposta in appositi recipienti di pelle, costituiva il cibo principale di ogni stagione.

Gli indiani non conoscevano il ferro, ma usavano il rame, che veniva usato nelle zone dei Grandi Laghi. Il ferro era abilmente rimpiazzato dalla selce o dall’osso. L’indiano sapeva tagliare, incidere, levigare il quarzo e la selce. Metteva grande cura nel fabbricarsi l’arco e le frecce, sola arma efficace per la caccia. L’asta veniva ricavata da alcune specie d’alberi o di canne, la punta, quasi sempre in osso, veniva fissata all’asta con sottili legacci di pelle.
La sistemazione delle piume era accuratamente studiata in funzione del tipo di caccia praticata; il piumaggio differiva di tribù in tribù, inoltre ogni fabbricante aveva il suo marchio particolare. Per fabbricarsi un arco si servivano di tre tipi di legno: Frassino, Noce e il Castagno, a volte veniva usato anche il corno di un ruminante. Si legava all’arco un nervo essiccato o un tendine. L’impiego di una tale arma richiedeva grande forza; perciò già dalla più giovane età i ragazzi si allenavano al suo uso; in caso di conflitto l’indiano era un arciere temibile ed abile; un buon guerriero scoccava 10 - 12 frecce in un minuto.
Per gli indiani della grande prateria l’arco non era mai più lungo di un metro, quindi non ingombrante e maneggevole anche in sella. Il turcasso poteva contenere sino a cento frecce, lungo poco più di 60 centimetri. L’indiano riusciva a scoccare i suoi dardi cosi rapidi che molti erano già in aria prima che il primo toccasse il bersaglio.
Lo storico Catlin in un’oc-casione, assistette ad una gara fra i Mandan durante la quale diversi tiratori riuscirono a tenere in aria sino a otto frecce.
Un’altra arma molto diffusa era il Tomahawk, fatto con una grossa pietra solidamente legata a una mazzuola.
La lancia era un’altra arma dell’indiano, fra i Comanche solo i combattenti più esperti potevano portarla. Essa era costituita da un’asta di legno di circa due metri con un puntale di osso o selce.
Infine il coltello per combattimento corpo a corpo.
Per la difesa di lance e frecce gli indiani usavano lo scudo, costituito da asticelle di legno ricoperto di pelli di bisonte riccamente ricamato.
Gli indiani utilizzavano anche la fibra libera di alcuni alberi, soprattutto Frassino, abbondante in terreni paludosi e vicino alle cascate; questa tagliata in strisce sottili, veniva poi trasformata in filo o corde, mediante lo sfregamento nel palmo della mano. Queste corde venivano usate come “Lazos”.
Arco:
Principale arma di difesa, d’attacco e da caccia degli indiani nordamericani fino al 1850 circa; poi fu gradualmente sostituito dai fucili a ripetizione a canna corta. Fu ancora usato fino al 1880, circa soprattutto dalle tribù dei Plains. Nell’era dei fucili ad avancarica con acciarino a pietrina o a percussione, l’arco era molto superiore (in distanze fino a 100 metri) alle armi da fuoco.
Gli indiani riuscivano a scoccare con abilità e precisione (2 frecce in 3 secondi). Presso gli indiani nordamericani si distinguono tre diversi tipi base:                                                            1) l’arco semplice (self o plain bow);
2) l’arco rinforzato (reinforced o backed bow);
3) l’arco composto (composite o compound bow).
L’arco semplice consta di un pezzo di legno, preferibilmente di arancio Osage. Se ne distinguevano due varianti: l’arco piatto (flat bow) e l’arco lungo (long bow). Gli archi piatti erano i più diffusi e si dividevano ancora, a seconda del tipo della loro incurvatura, in archi piatti a incurvatura singola e archi piatti a incurvatura doppia.
L’arco rinforzato è formato da un lungo legno a sezione traversale ellittica, il cui dorso è rinforzato da un sottile strato di tendine incollatovi. Le sue prestazioni sono superiori a quelle dell’arco semplice.
L’arco composto consta di due bracci di corno di cervo o di capra di montagna, connessi, incollati nonché rinforzati da più strati di tendini.
Il tipo più conosciuto è il cosiddetto arco “Elkhorn” (di corna d’alce) delle tribù dei Plains settentrionali.
In media gli archi degli indiani nordamericani erano lunghi circa 50 inches = 1,27 m; la lunghezza ottimale del segmento della freccia in tensione corrispondeva a circa 26 inches = 60 cm. I pionieri americani misuravano la forza di un arco (combinazione di distanza di tiro e forza perforante) in base alla “forza di tensione”. Se un arco aveva una tensione di 24 inches e una forza di tensione di 45 libbre (= 20,430 kg), ciò significava che ci voleva una forza di tensione di 45 libbre per scoccare una freccia con un raggio di tensione di 24 inches (= 60 cm).
Valori:

  1. arco semplice: tensione = 24 inches, forza: 43 libbre;
  2. arco rinforzato: tensione = 28 inches, forza: 50 libbre;
  3. arco composto: tensione = 30 inches, forza: 60 libbre.

Il raggio di tiro corrispondeva circa a:

  1. arco semplice: trapassava un uomo nudo alla distanza di 70 metri;
  2. arco rinforzato: trapassava un uomo nudo alla distanza di 80 metri;
  3. arco composto: trapassava un uomo nudo alla distanza di 90 metri.

Questi valori corrispondono approssimativamente alle cronache contemporanee.
L’arco migliore era “l’Elkhorn” dei Nez Percé e l’arco Yacqui.
I Sioux ed i Comanche, che abitualmente adoperavano l’El-khorn, fabbricavano anche il “rip bow”, servendosi delle costole di bisonte; quest’ultimo tipo scomparve gradualmente con l’adozione del cavallo perché di lunghezza eccessiva. Deve aver avuto un raggio di tiro ancor superiore rispetto a quello dell’Elkhorn, ma non poté mai venire provato perché non ne esiste più alcun esemplare. La corda dell’arco era per lo più formata da un tendine animale.

Freccia:
Le frecce indiane constavano dei seguenti elementi:
1) Asta: di diversi tipi di legno a seconda della regione (legno tenace, talvolta canna), di diversa lunghezza, forma e sezione e dai più svariati motivi ornamentali.
2) Asta anteriore: spesso venivano posti all’interno della cavità anteriore dell’asta (nel caso di legno si praticava un foro; nel caso di canna era già presente) dei corpi di legno duro che conferivano alla freccia il necessario peso anteriore.
3) Base: parte dell’asta sulla quale o nella quale venivano applicate le piume di direzione: le piume potevano essere assicurate all’asta legandone il calamo terminale con un tendine oppure potevano essere assicurate alla parte centrale dell’asta facendo uso di materiale adesivo; talvolta ancora esse venivano infilate in piccole fessure della base.
4) Piumaggio per conferire stabilità di volo alla freccia si faceva uso di penne il cui calamo era sezionato a metà ed il cui vessillo era tagliato a forma romboidale. Esse potevano essere di diversa lunghezza, larghezza, forma e numero.
5) Cocca: parte della base della freccia afferrata dal tiratore. Presenta diversa forma a seconda del livello culturale, della regione e della tribù.
6) Tacca: taglio che correva alla base della freccia nel quale andava ad inserirsi il tendine; diverso e caratteristico per ogni tribù.
7) Punta: si distingue fra “punte applicate” e “punte dell’asta”. Le punte applicate erano fatte di pietra, osso o metallo e presentavano le forme più svariate, a seconda del livello culturale e dello scopo specifico (caccia, guerra o allenamento); erano per lo più uncinate.
Le punte dell’asta venivano preparate spuntando e facendo indurire al fuoco l’estremità dell’asta, facendole assumere molteplici forme, angoli di inclinazione e uncini a seconda dello scopo. Il fatto che si siano ritrovate numerosissime punte di pietra non significa affatto che fossero le più usate, ma solo che la pietra si è appunto potuta conservare più a lungo, mentre gli altri materiali soggiacciono a corruzione. Di regola erano artigiani particolarmente qualificati a produrre gli archi e le frecce ed erano artisti altamente specializzati a fabbricare le punte. Presso le tribù settentrionali, gli “artigiani delle frecce” e “gli scultori di punte” rappresentavano una classe a sé, cosicché la freccia forniva gli elementi non solo per riconoscere tribù, sottogruppo o clan, ma anche i loro artefici. Un esperto scout, sulla base del design, della lunghezza, della sezione e del taglio del piumaggio, era in grado di indicare sui due piedi la tribù, l’intenzione e lo scopo degli invisibili tiratori di una sola freccia. Degno di nota l’appunto del trapper Heinrich Jakob Besuden, datato 1837: “il cervo era evidentemente corso via ancora a lungo dopo essere stato colpito. Toro Nero la osservò (la freccia) dopo averla estratta con cautela dal corpo dell’animale e dichiarò qualcosa di veramente sorprendente: era una freccia di guerra Ojibwa per lunghe distanze, una delle cosiddette “frecce silenziose” con piumaggio speciale che attutisce il sibilo e permette una mira sicura. Disse che si trattava di una piccola spedizione di guerra (War-party) di 5 - 8 guerrieri distante circa 30 miglia: quegli indiani pensavano solo a procacciarsi dei cavalli e noi non potevamo perciò stare tranquilli.
Il giorno dopo c’imbattemmo in un gruppo di 7 guerrieri Objibwa e Toro Nero lanciò solo un breve sguardo e restituì ad uno di loro la sua freccia”.
“Nonostante tante lotte, ho avuto la fortuna di non versare mai il sangue di una donna o di un bambino, neanche involontariamente”. Così disse Geronimo, un grande capo Apaches, concludendo il racconto delle sue imprese.
Le tribù pellirosse erano spesso in guerra fra loro per i più futili motivi: bastava che due tribù si trovassero contemporaneamente sullo stesso territorio di caccia perché la guerra fosse inevitabile.
Pur tuttavia questi guerrieri erano combattenti leali, né le donne, né i bambini dei vinti venivano uccisi; i prigionieri erano rispettati; i trattati, benché fossero soltanto verbali erano scrupolosamente osservati. Per alcune tribù, come gli Apaches, i Comanches, i Sioux, la guerra non era che un particolare tipo di caccia, che si concludeva con la cattura dei cavalli del villaggio aggredito. Per aggredire di sorpresa il villaggio nemico, i cavalieri stavano aggrappati ad un fianco dei loro cavalli, così da rimanere nascosti; i cavalli si avvicinavano al villaggio come fossero una mandria al pascolo; poi, ormai vicini, d’un tratto i cavalieri sferravano l’attacco.

La Danza del Sole

E’ una delle più notevoli feste degli indiani delle pianure. Essa era celebrata dalle tribù Arapaho, Cheyenne, Dakota, Comanche, Kiowa, Crow, Blackfeet, Ute, Ponca, Sioux ed altre. A causa delle autolesioni associate a molte delle sue forme, che il governo degli U.S.A. la proibì nel 1904, poi la permise nel   1935, cosicché diverse tribù la conservano ancora oggi, sebbene con molte modifiche.
La cerimonia consiste in un’adorazione di una particolare divinità, ma si tratta di una celebrazione composta di elementi diversi largamente diffuse in tutto il paese. Un tempo la danza veniva eseguita in occasione dell’annuale raduno dei gruppi tribali che si teneva nella tarda primavera o all’inizio dell’estate. La tribù si accampava in un immenso circolo che simboleggiava l’unità. Conduceva la danza uno “sciamano” pratico della cerimonia, il quale istruiva i partecipanti in una tenda sacra eretta allo scopo.
Nello stesso tempo alcuni uomini cercavano un albero adatto che veniva abbattuto da una persona particolarmente qualificata, di solito da una donna casta. Dall’albero veniva ricavato un palo che era issato in un recinto circolare dove figurava come l’altare un’area ripulita su cui si trovavano crani di bisonti.
Generalmente i celebranti digiunavano per parecchi giorni, guardando fissamente la punta del palo centrale, danzando e pregando per avere forza. Le donne partecipanti al rito dovevano dichiarare di non aver commesso peccati di carattere sessuale. Per le dichiarazione non ritenute veritiere veniva organizzata una prova ordalica consistente nella spellatura di una fetta di lingua al bisonte. Le donne che foravano la pelle o si tagliavano erano considerate colpevoli e dovevano confessare i loro falli pubblicamente.
Nella cerimonia non era assolutamente generale il carattere di tortura, sebbene alcuni partecipanti si tagliassero la pelle del petto o della schiena in modo da inserirvi degli spiedi uniti a corde appese al palo centrale.
I danzatori pendevano dalle corde fino a quando la pelle non si strappava.
Le scene di autolesionismo mancavano completamente fra i Kiowa, Ute e Shoshone; soltanto fra i Dakota e i Ponca i celebranti principali si sottoponevano a tale mortificazione, per le altre tribù era volontaria. La cerimonia si prolungava per quattro giorni e quattro notti.
Nelle canzoni, nelle danze e nelle pitture che erano eseguite in tale periodo veniva simbolizzato il SOLE, il TUONO, le STELLE, la MADRE TERRA, i quattro punti cardinali, così come si imitavano scene di guerra o di caccia al bisonte. E’ chiaro che la danza era solo in parte una cerimonia religiosa e che in grande misura essa serviva, oltre che per il piacere estetico e per il divertimento degli spettatori, per riaffermare l’unità della tribù. Infatti, dopo la Danza del Sole, ognuno ritornava nei propri terreni di caccia al seguito delle mandrie dei bisonti.

La Danza dello Scudo

Un giovanotto arrivato all’età di prendere posto nei ranghi dei guerrieri ha bisogno di uno scudo che egli si fabbricava con la pelle del collo del bisonte; mentre lo scudo s’induriva al calore di un fuocherello, amici e guerrieri danzavano tutto intorno, cantando canzoni sacre.

La Danza dello Scalpo

Quando i guerrieri ritornavano da una battaglia con capigliature di nemici, i sanguinosi trofei venivano tesi su cerchietti e quindi appesi a lunghi bastoni. Mentre gli uomini cantavano le loro audaci imprese le donne formavano un circolo e, danzando, tenevano alti gli scalpi.

La Danza del Serpente

 

Danza cerimoniale tenuta ogni due anni dagli Hopi di numerosi pueblo per propiziare la pioggia. I danzatori tengono in bocca dei serpenti che vengono lasciati liberi dopo esercizi e riti speciali “affinché con loro ritorni la pioggia”.

La Danza del Mais Verde

 

Cerimonia annuale di purificazione dei Creek che durava 4 - 8 giorni.

Si ingerivano forti sostanze lassative ed emetiche per purgare il corpo.

Il “fuoco della direzione del vento” della cerimonia del-l’anno precedente, che ardeva ininterrottamente da un anno, veniva spento e ne veniva acceso un altro formato da quattro ceppi per ogni direzione del cielo. Tutti i beni di consumo principali come mobili, biancheria, vesti e cosi via, venivano bruciati pubblicamente e riconfezionati. Ci si perdonava reciprocamente ogni peccato e dopo questa festa del “rinnovamento” il nuovo anno incominciava spiritualmente e fisicamente fortificato. Agli americani la distruzione degli oggetti di consumo sembrava folle: in realtà i Creek impedivano così l’accumularsi della proprietà privata. I sociologi moderni sostengono che la “festa del mais verde” dei Creek rappresenta una delle soluzioni  pratiche più straordinarie ai problemi sociali.

“Padre mio, che sei ovunque e per cui sono in vita, forse sei stato tu che, per opera d’uomini, mi hai messo in questo stato, perché sei tu che disponi d’ogni cosa. Ma poiché per te nulla è impossibile, liberami dai miei nemici, se lo ritieni giusto. Ed ora a voi tutti, pesci dei fiumi e uccelli del cielo e animali che correte sulla terra, e a te, o sole, offro questo mio cavallo. Voi, uccelli dell’aria e voi, ospiti delle praterie, siete i miei fratelli perché un solo padre ci ha creati e vedete come io sia infelice; se dunque avete qualche potere presso il Padre, intercedete per me”.

Questa bellissima preghiera fu pronunciata da un indiano della tribù dei Pawnee, mentre si trovava in una situazione disperata. In essa troviamo non solo l’espressione di fede in Dio, padre giusto e amoroso di tutte le creature, ma anche il senso di una profonda rassegnazione alla volontà divina.
Le varie tribù indiane chiamavano il Grande Spirito Creatore con nomi diversi:
MANITU’ gli Algonkini, WACANDAH i Sioux, YASATASINANE, che significa “capi-tano del cielo” gli Apaches.

 

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Intervista a Mirella Fanunza

di Giuseppe Lurgio.

Salve!
In questo numero ci occuperemo di una scrittrice.
Il suo nome forse non vi dirà nulla ma quando leggerete alcuni passaggi della sua biografia capirete che stiamo parlando di un personaggio che ha un certo peso nell'ambiente letterario italiano.
Sto parlando di Mirella Fanunza. Prima di procedere scopriamo insieme qualcosa di lei tanto per entrare nel personaggio.
Le sue prime pubblicazioni risalgono agli anni 80 con la casa editrice Lancio. Poi nel 2003 partecipa a un concorso indetto dalla rivista Confidenze dove scrive un racconto che poi verrà pubblicato insieme agli scritti di altre 10 partecipanti in un libro che si intitola Confidenze dal cuore, edito dalla Mondadori.
Poi nel 2004 incomincia la sua collaborazione con la rivista Intimità nella quale ha pubblicato, fino ad oggi, ben 131 racconti.
Nel 2008 vince il premio Oscar del fotoromanzo come migliore soggetto e sceneggiatura nel romanzo Giochi pericolosi pubblicato su Kolossal.
A un certo punto della sua carriera letteraria, e precisamente nel 2011, decide di affrontare un tema per così dire, più serio, e scrive un libro che si intitola Sapore aspro d'amore pubblicato da Edizioni Marte.
Un volume che tratta le toccanti e dolorose vicende esistenziali di Antonella Flati.
L’abbandono che ha subito all’età di un anno e mezzo, la dura vita in collegio, le adozioni forzate e rifiutate, una maternità prematura che la riporta nel collegio per ragazze madri, le difficoltà incontrate nella volontà di “ritrovare” la sua famiglia.
La separazione dai fratelli, gli amori sbagliati. I figli nati da unioni sfortunate e cresciuti in prima persona con lodevole dignità. La riconciliazione con i genitori, fino al più recente matrimonio, anch’esso finito, con una sua vecchia amica d’infanzia, nel frattempo diventata uomo; Una situazione unica in Italia, tant'è vero che a suo tempo la notizia riempì le pagine dei giornali.

Inizio intervista

D: Signora Fanunza,innanzitutto la ringrazio anche a nome di tutta la redazione di Giovani del 2000 per avermi concesso la possibilità di farle alcune domande.
R: Grazie a voi!

D: Le chiedo per prima cosa di parlarci un pò di lei come persona e come scrittrice, tanto per farsi conoscere dai nostri lettori.
R: Sono una persona solare, completamente diversa dalla ragazza di tanti anni fa. Ero molto timida e introversa, ora sono tutto l’opposto. E per fortuna! Perché vivo decisamente meglio con me stessa. Mi piace relazionarmi con il prossimo, sono diventata una chiacchierona, ma anche un’attenta ascoltatrice. Sono cresciuta a caramelle e fotoromanzi, che leggevo di nascosto, perché mio padre aveva sempre da ridire. Sono nata da padre sardo e madre salernitana, in Liguria. Poi, dagli otto ai 16 anni ho vissuto in provincia di Pavia. Ed ero già una ragazza quando mio padre ha deciso di tornare nella sua terra natale, che era la sua, non certo nostra. Una decisione che non accettai a cuor leggero, anche se ora sono felice di vivere in questo angolo di Paradiso! Sono sposata da quasi trent’anni, e ho due figlie che sono la cosa più bella e importante della mia vita.

 

D: Come è nata in lei la passione per questo genere di scrittura? Si e ispirata a qualcuno o semplicemente era innata in lei?
R: come dicevo prima, la Casa Editrice Lancio è da sempre nel mio cuore, ed è stato molto doloroso arrendermi alla sua chiusura, l’anno scorso. Sono sempre stata brava in italiano e avevo fin da piccola una spiccata fantasia. Chiudevo gli occhi e sognavo, e imbastivo storie in cui spesso ero io la protagonista. Buttavo giù di tutto, dalle piccole poesie ai raccontini… Credo quindi di poter dire che la mia è una dote naturale, una sorta di predisposizione che ho acuito con la mia curiosità e con la lettura rosa…

D: Oggi siamo letteralmente bombardati dalla televisione e dalla rete che ci propinano storie d'amore in tutte le salse. Secondo lei il fotoromanzo ha ancora un vasto seguito come qualche anno fa, che era letto dalla maggior parte delle ragazze che in quelle storie magari si immedesimavano?
R: Purtroppo il fotoromanzo ha perso molti lettori, strada facendo. E le nuove generazioni non si appassionano facilmente a questo genere di lettura, a differenza nostra che l’amore dovevamo soprattutto sognarlo prima di poterlo vivere, vista la severità dei nostri genitori e i tempi un po’ meno aperti di ora. All’epoca, la televisione offriva poche reti televisive, pochi programmi. In edicola impazzava il genere “rosa” e il fotoromanzo era una novità che andava tantissimo. Franco Gasparri in primis, ma anche tanti altri bravissimi attori, ci facevano sognare con il naso all’insù, e appassionare alle varie vicende. Mi piacerebbe se il fotoromanzo fosse rivalutato perché sono convinta che sia un’ottima lettura per tutti! All’epoca, anche molti maschietti li leggevano rubando alle sorelle, e si incantavano davanti agli occhioni verdi di Claudia Rivelli o al bel sorriso di Michela Roc…

D: Nella mia breve introduzione ho accennato al suo libro Sapore aspro d'amore e ho raccontato sommariamente la trama.
Vuole lei aggiungere qualcosa o qualche curiosità a proposito del libro stesso?
R: Antonella, la protagonista del libro, mi ha contattata tramite facebook dicendomi che avrebbe voluto scrivere la storia della sua vita, se potevo occuparmene. Sulle prime, ho pensato alla solita persona che crede di avere qualcosa di interessante da raccontare, ma magari alla fine non è niente di che… Poi, mi sono documentata su di lei e ho scoperto che era stata la prima donna in Italia a sposare una persona che aveva cambiato sesso, addirittura una sua ex-compagna di collegio con cui non andava neppure d’accordo. Quando poi mi ha spedito il primo pezzo della sua vita, mi sono resa conto che aveva tantissimo da raccontare. La sua vita sembra siano tante vite tutte insieme, e se l’avessi inventata non sarei stata neppure credibile!

D: Esiste una versione in formato elettronico del suo libro che i nostri lettori non vedenti possono acquistare su qualche sito visto che non possono leggere la versione cartacea?
R: Per ora non c’è nessuna versione cartacea, ma si può richiedere tramite Edizioni Marte, preswente sul web.

D: Lei sa che circa metà dei lettori del nostro periodico sono non vedenti come lo sono d'altronde io. Quindi mi sorge spontaneo chiederle se ricorda che in qualcuno dei suoi innumerevoli racconti o fotoromanzi vi sono dei personaggi non vedenti o con altre disabilità?
Se ci sono che ruolo hanno nel racconto stesso?
R: Mi è capitato di scrivere racconti che avevano per protagonisti persone con gravi disabilità. In un fotoromanzo ho avuto come protagonista un ragazzo che era finito sulla sedia a rotelle. Non l’ho fatto finire bene (negli anni ’80 non mi avrebbero mai accettato un finale del genere), infatti il protagonista affronta un intervento che non va a buon fine, e lui rimane paralizzato. Sono convinta che non sempre si debba scrivere la favoletta, ma al contrario, la gente deve sentirsi raccontare storie reali e concrete e cercare di capire le varie difficoltà delle persone. Di quel fotoromanzo ho fatto anche un seguito, e hanno avuto entrambi molto successo.

D: Molte nostre lettrici scrivono spesso dei bellissimi racconti o piu frequentemente delle poesie che il più delle volte restano sulle pagine elettroniche di questo periodico o peggio nessuno le legge e le apprezza. Lei può dare loro un consiglio o un indicazione affinchè magari anche un loro racconto o poesia venga pubblicato su una rivista più seguita o più famosa?
R: Proporsi sempre e comunque. Tentar non nuoce, al limite ci si sente dire un “no”. Però, almeno, uno ci ha provato. E poi, con internet, è più semplice cercare concorsi letterari o case editrici…

D: Ho letto una notizia su di lei che mi ha molto incuriosito, e che sicuramente incuriosirà anche alcune lettrici!Pare che lei abbia adottato un famoso personaggio della musica leggera italiana,o meglio Marco Carta.
Può parlarcene in maniera più dettagliata?
R: Ah ah! L’ho adottato, per modo di dire. Lui è senza i genitori, entrambi sono morti, e io sono una delle tante mamme che gli vogliono un bene pazzo e lo seguono nella sua carriera, ma anche nella vita. È un’adozione virtuale… ma di cuore.

D: Lei ha un sogno nel cassetto?
Può raccontarcelo?
R: Scrivere un libro che abbia grande successo. Che piaccia tantissimo, insomma. E continuare a scrivere storie che appassionino i lettori!

D: Lei molto gentilmente ha regalato a noi e ai nostri lettore un racconto che noi pubblicheremo su Giovani del 2000.
Noi la ringraziamo moltissimo per questo regalo,e colgo l'occasione per chiederle un suo commento sul nostro periodico. Magari anche un suo consiglio per migliorarlo.
R: Non saprei. Credo che vada benissimo così! Magari dovreste pubblicizzarlo di più, o renderlo più accattivante per incuriosire di più i lettori. Ma non chiedetemi come

D: Bene,siamo giunti alla fine di questa breve intervista.
Nel salutarla e augurandole un buon proseguimento di carriera, le chiedo un'ultima cosa. È consuetudine nelle mie interviste che l'ospite lasci ai lettori una frase, un suo pensiero, un augurio o semplicemente un saluto. Vuole farlo anche lei?
R: Innanzitutto ringrazio voi per questo spazio. E poi, tutti coloro che mi seguono con affetto e interesse. Un grosso grazie alla vita che, veramente, mi ha dato tanto. Mi ritengo una persona molto fortunata! Auguro a tutti di realizzare i propri piccoli e grandi sogni!

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Hobby e tempo libero

Oman, il paese che non ti aspetti

di Gianfranco Pepe

La capra abbarbicata sull'orlo del precipizio osservava belando il versante opposto dell'arida vallata. Una pista pietrosa serpeggiava lungo i bordi rocciosi della montagna. Sulla pista, 2 fuoristrada Toyota Land Cruiser bianchi rompono il silenzio, ronbando rabbiosi sull'impervia salita. Sui fuoristrada 5 turisti italiani iniziano a scoprire le splendide sorprese di questo angolo di mondo accompagnati da due ragazzi davvero in gamba. Sulla prima macchina condotta da Mubarak, per 16 anni nel deserto sui carri armati dell'esercito omanita, io e Frediana; sulla seconda guidata da Lorenzo, trentacinquenne di Torino con la passione del volo e della natura selvaggia, gli altri 3 amici: Annarita e Amelia, fedeli compagne di avventure nonché indomabili sirene, e Paolo, marito di Amelia, soprannominato Cammellone per la sua straordinaria somiglianza a questi simpatici animali e la sua resistenza ad affrontare con disinvoltura le estreme condizioni del deserto. E' il primo giorno di viaggio e stiamo attraversando le brulle e scenografiche montagne dell'Hajar, tra silenti formazioni rocciose, minuscoli villaggi e rari piccoli palmeti strappati con fatica alla siccità, che vivacizzano il paesaggio donando un tocco di colore e di tipicità al nostro tortuoso percorso. La cupola azzurra del cielo sovrasta luminosa le cime e ci accompagnerà così sino alla fine del viaggio, e il sole rallegrerà sempre le nostre giornate senza che nessuna nuvola osi contrastarlo.

Che ci facciamo quaggiù? Il desiderio di ritrovare le silenziose atmosfere del deserto dopo l’esperienza libica ci ha spinto a cercare una nuova meta, ma presto scopriremo che l'Oman non è solo deserto. La natura, bella ed estremamente varia, fa la parte del leone, ma non meno interessante è l’aspetto culturale con una storia densa di tradizioni. L'Oman occupa la zona più orientale della penisola arabica con una lunghissima costa bagnata dall'oceano indiano. Ha un territorio grande come l'Italia ed una popolazione pari grosso modo agli abitanti della sola Milano e dintorni. In pratica, al di fuori dei luoghi più popolati non c'è nessuno ed è possibile restare a lungo immersi nel nulla circondati da una natura cruda ma estremamente affascinante. Nonostante questo, il viaggio in Oman è un viaggio facile. Facile soprattutto perchè questo è un paese estremamente tranquillo e aperto, benedetto dal petrolio che permette a tutti di vivere decorosamente, governato da un sultano per così dire illuminato e amato dalla sua gente. Gente molto ospitale e fondamentalmente onesta e corretta. Lorenzo ci dice che se ad esempio lasciassimo i nostri bagagli incustoditi nessuno li toccherebbe. Esperienza da noi direttamente avuta in Giappone ma che mai certamente mi aspetterei in un paese arabo. Forse qui è molto efficace la famosa legge del taglione, ma credo anche che sullo spirito di questa gente influisca la religione. Ovviamente sono musulmani, ma questo è l'unico paese al mondo a maggioranza Ibadita, la terza via dell'Islam oltre agli Sciiti e ai Sunniti e sicuramente è tra gli elementi che li rende diversi. Peccato che negli ultimi 40 anni questo paese sia passato forse troppo velocemente dal medioevo alla modernità e che l'onestà non vada sempre d'accordo con l'educazione e soprattutto con il rispetto per l'ambiente e per una natura così unica e delicata. Infatti è un vero peccato che, sia nel deserto che sulle infinite spiagge, la maledetta plastica abbellisca e impreziosisca con bottiglie e sacchetti le piste più battute. Fortunatamente però l'immensità dei luoghi, la poca densità abitativa e la totale assenza di scarichi e di industrie permette comunque di godere di ambienti ancora puri e incontaminati.

Quella capretta che ci guardava dall’alto incuriosita insieme a poche altre come lei, uniche presenze di vita intorno a noi, ci fanno compagnia durante il nostro picnic; il primo di una lunga serie di picnic che saranno per noi indimenticabili momenti di relax e di simpatica condivisione. Si sale ancora tra bellissimi aridi panorami montuosi sino ad un passo a 2000 metri. La dolce luce del tramonto dona colorazioni rosseggianti al profondissimo canyon che si spalanca improvvisamente ai nostri piedi, precipitando per più di 1000 metri sotto di noi. Il resort che ci accoglie per la notte è immerso nel nulla in una statica tranquilla atmosfera.

La giornata che ci accompagna verso la meta della città di Nizwa, la seconda del paese e importante antico centro religioso, è densa di interessanti momenti paesaggistico-culturali.   
Visitiamo il forte di Jabrin, quello di Bahla e infine anche quello di Nizwa che, insieme a molti altri,  sono essenziali nella collocazione storica di questo paese. Massicci baluardi difensivi ed importanti centri di potere politico religioso, spesso unici punti di permanente solidità per un popolo fondamentalmente nomade sempre condizionato dalla ricerca dell’acqua. E siccome la necessità aguzza l’ingegno, la poca acqua disponibile viene sfruttata al massimo tramite antiche ingegnose canalizzazioni chiamate “falaj”. Questo permette la crescita di palmeti più o meno vasti di palme da dattero, all’ombra delle quali sono possibili diversi tipi di coltivazioni e che abbelliscono e movimentano i paesaggi. Il palmeto è una costante fonte di vita ai piedi degli arroccati villaggi costruiti in “banco” ( mattoni impastati di argilla, paglia, sassi e sterco di cammello) che, con il loro color ocra si inseriscono stupendamente nell’ambiente naturale, incastonati tra le falesie di roccia al di sopra delle palme, regalando indimenticabili cartoline.       

E’ arrivato il tanto atteso momento di attraversare il deserto di Waiba Sands, il più piccolo dei deserti omaniti situato nel territorio interno ai margini dell’oceano indiano, oltre a quello vastissimo di Rub Al Khali che occupa la zona sud occidentale del paese.
Facciamo il pieno e sgonfiamo le gomme dei nostri bestioni per affrontare più agevolmente il fondo sabbioso. La pista è inizialmente pianeggiante ma presto davanti a noi si ergono alte dune di colore rosso. I fuoristrada ringhiano aggressivi sbandando e serpeggiando sulla soffice superficie, spingendo i motori al massimo nelle salite e mollando di botto sull’orlo delle creste. In poco tempo intorno a noi non vi è altro che sabbia e ci arrampichiamo a piedi sulla sommità di una duna per assaporare al massimo questa incantevole atmosfera così insolita e silenziosa.
Dopo aver goduto di uno strepitoso tramonto sempre dall’alto di una grande duna, ci buttiamo a capofitto saltando a balzelloni a piedi nudi nel soffice precipizio. La cena sotto le stelle è il preludio di una notte tranquilla nelle confortevoli tende beduine del campo, in un silenzio assoluto e penetrante. 

Ci aspettano 130 chilometri di sola sabbia. Partiamo seguendo le piste segnate dai solchi di altri pneumatici nei corridoi naturali ma spesso le abbandoniamo attraversando le catene delle dune, su e giù sbandando con grande divertimento. Le forme sinuose delle dune sono sempre diverse e le sfumature di colore cambiano col cambiare della luce. Attraversiamo poi un deserto più pianeggiante, il fondale di un antico immenso lago neolitico punteggiato di bassa vegetazione. Ai bordi del lago il territorio è formato da piccole dune parallele di 2 o 3 metri di sabbia sofficissima che rendono il paesaggio ancor più straordinario. La nostra guida ci dice che chi finisse lì dentro non ne uscirebbe vivo. Dopo un picnic sotto le frasche ma comunque piuttosto rovente, sempre nell’assoluta solitudine, lasciamo questo grande bacino. I nostri angeli custodi decidono di puntare verso la nostra sinistra in direzione est in una spaccatura tra 2 dune. Motori al massimo e si decolla! Oltrepassata la cresta, ai nostri sguardi stupefatti si apre un grandioso panorama di un oceano in tempesta di grandi onde di sabbia chiarissima a perdita d’occhio. Si chiamano dune a catino ed è una superficie particolarmente morbida ed insidiosa nella quale ci insabbiamo più volte dovendo ricorrere all’aiuto delle corde.
Dopo molte ore di emozionante deserto le gomme dei nostri Land Cruiser toccano nuovamente l’asfalto. Ci fermiamo ad approvvigionarci per la prossima suggestiva nottata. Granchioni azzurri per il sugo della pasta e 2 dentici giganteschi saranno la nostra cena. Siamo in ritardo, il sole sta già tramontando, e così i nostri amici spingono sull’acceleratore nel tratto di spiaggia che ci separa dalla meta della baia di Al Khaluf, con  i fuoristrada che ondeggiano planando leggeri sulla battigia sfiorando le onde del mare. Il luogo deputato a passare la notte è da urlo, immersi tra dune bianchissime a pochi metri dall’oceano. La cena sotto la luna quasi piena, il ritmico rumore della risacca che cullerà il nostro sonno nelle tendine igloo sperdute in un posto così spettacolare, sarà un’esperienza che non dimenticheremo mai.

All’alba siamo già in mare per il primo di una lunga serie di bagni nelle tiepide acque dell’oceano.
Togliamo le tende e ci trasferiamo verso la selvaggia isola di Masirah, tra rocce scure spruzzate di sabbia chiarissima che ci ricordano paesaggi innevati.
A parte poche strutture, l’isola è per lo più disabitata ed è un paradiso ornitologico per migliaia di uccelli migratori, nonché per diverse specie di tartarughe marine che popolano tutta questa zona. Percorriamo l’intero periplo dell’isola di 140 chilometri, di cui la prima metà sul lato esterno sempre e solo guidando lungo la spiaggia, godendoci ogni metro e ogni angolo, “allietati” di tanto in tanto anche da alcuni inevitabili insabbiamenti. Il chiaro della sabbia contrasta splendidamente con le diverse sfumature di verde e di azzurro che colorano le piccole calette che si susseguono tra tratti affioranti di barriera. Diverse aquile marine marroni col petto giallo sono vicinissime. Ci fermiamo qua e là in scenografiche baie per fare il bagno e sostiamo per il picnic all’ombra di un abbandonato capanno di pescatori. Preziosi rami di corallo nero e madrepore a forma di ventaglio sono dappertutto. Ci fanno notare le tracce di sciacalli e di volpi a caccia delle uova di tartaruga, così delicatamente e faticosamente deposte dalle enormi madri nelle profonde buche. Il lato opposto dell’isola è invece bagnato da una grande placida laguna intervallata da tratti di barriera corallina. La raffinata cena servita da graziose cameriere con gli occhi a mandorla chiude degnamente un’altra magnifica giornata.

Tornati sulla terra ferma, puntiamo verso nord superando il promontorio di Ras El Hadd. Dopo pochi chilometri lasciamo l’asfalto e ci immergiamo nuovamente tra le dune. La sabbia che oggi ci circonda è impalpabile e di un meraviglioso tenue color rosa cipria. Ci fermiamo ad assaporare il panorama della sabbia rosa che contrasta con una striscia di mare azzurro all’orizzonte. Dopo poco sostiamo ancora sulle dune a picco sul mare in uno scenario di grande bellezza e, per donarci un brivido di ulteriore emozione, alcuni delfini passano a poca distanza sotto di noi ondeggiando sinuosi sotto la superficie.
 I nostri bravi autisti riescono a raggiungere la spiaggia in un difficile passaggio tra rocce e soffici dune. Dopo tanta immota e silente meraviglia, il nostro percorso si anima improvvisamente. Corriamo con i fuoristrada per una quarantina di chilometri sulla battigia a pochi metri dalle onde, tra gruppi di pescatori che svuotano le reti piene di milioni di sardine scintillanti, bambini che ci fermano e ci salutano e migliaia di gabbiani e altri uccelli marini che ricoprono la lunghissima spiaggia come un tappeto stridente. Passando con l’auto e suonando il clacson gli uccelli si alzano in volo e ci circondano in una densa nuvola con centinaia di ali in movimento che ci sfiorano. Ancora una scena indimenticabile.
Altro splendido bagno e altro simpatico picnic a pochi metri da rocce incrostate di corallo viola lasciate scoperte dalla bassa marea insieme a tantissime conchiglie dalle forme più varie.
Prima di cena, nel tranquillo specchio di mare antistante i nostri bungalow di paglia, una tartaruga che riprende fiato con la testa fuori dall’acqua ci dà la buona notte.

La giornata di trasferimento verso la capitale Muscat, che immaginavamo noiosa, ci regala al contrario altri motivi di stupore. Ci inoltriamo prima nel Wadi Tiwi e percorriamo alla fine del viaggio la strada sterrata del Wadi Mya che ci porta direttamente e senza alcun traffico alle spalle della città. I wadi sono letti di fiumi asciutti che formano piccole o vaste vallate e che spesso in estate si riempiono ancora di preziosa ma a volte anche devastante acqua. Intorno a noi ancora alti scenografici rilievi rocciosi, profonde spaccature, martoriati e selvaggi territori dalle incredibili sfumature di colore.

La grande moschea in marmo bianco, regalata al suo popolo dal sultano, moderna ma dalle forme classiche è indubbiamente il monumento più bello e maestoso di Muscat. Preziosi marmi, belle vetrate, il più grande tappeto del mondo che ricopre il pavimento e un enorme lampadario in oro e cristalli Swaroski che la illumina e regge la grande cupola, formano davvero uno splendido insieme.    
Anche la città è quella che non ti aspetti da un tipico paese arabo. Oltre alle belle costruzioni che costeggiano il lunghissimo litorale di un mare balneabile, il benessere è palpabile. Non ci sono in giro macchine vecchie e scassate e anche il souk, per quanto animato, non ci accoglie con forti odori o disordinata sporcizia. E la scena più emblematica la notiamo incuriositi nelle tante gioiellerie che si susseguono. Gruppi di donne velate di nero affollano i negozi come se vendessero pane a buon mercato, mentre una fila di uomini attende solo di passare alla cassa. Forse queste donne non contano poi così poco come si vuole credere!

Prima della partenza qualcuno mi ha chiesto cosa pensavo di trovare nel deserto e perché una natura così apparentemente desolata ci attraesse tanto. Le ragioni sono molteplici e spero di essere riuscito a descriverle ma credo che queste poche parole di un famoso mistico indiano possano completare bene il mio racconto. 

  
Siediti ai bordi dell'aurora, per te si leverà il sole.
Siediti ai bordi della notte, per te scintilleranno le stelle.
Siediti ai bordi del torrente, per te canterà l'usignolo.
Siediti ai bordi del silenzio, Dio ti parlerà
(Vivekananda)

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Patologia

Capelli

di Maria Grazia Sales

Caduta dei capelli…  ogni singolo capello vive da 2 a 5 anni   poi il follicolo che l’ha prodotto si raggrinza   entra in fase di inattività e il capello cade,   perciò una certa perdita di capelli è normale.   Cadono circa 80 capelli al giorno.   Quando il follicolo riprende la sua funzione   cresce un nuovo capello.   In genere   circa il  10 per cento dei follicoli del cuoio capelluto è in fase di inattività mentre il  90 per cento è attivo.   Nelle altre parti del corpo avviene il contrario.   Il maggiore numero è inattivo per la maggior parte del tempo,   se così non fosse   avremmo tutti un pelame come gli orsi.   La calvizie è stata attribbuita a varie cause:   portare il cappello   o non portarlo,   troppa attività sessuale,   troppa o  poca  esposizione al sole,   troppo o pochi    lavaggi.
Si dice che la forfora accellera il processo della calvizie,   tuttavia innumerevoli persone hanno avuto la forfora tutta la vita,  mantenendo comunque   una folta capigliatura.   Oggi si crede che la tendenza alle calvizie sia ereditaria.   basta guardare  la fotografia del nonno per avere un’idea di ciò che gli riserva il futuro.   si calcola che le calvizie colpisca il 43 per cento degli uomini e l’8 per cento delle donne.  
Si può fare qualche cosa per fare crescere i capelli sulle teste calve?   Parecchi anni fa una commissione speciale dell’associazione medica americana asserì categoricamente,   se un uomo è in condizioni di salute soddisfacenti e la perdita dei capelli è progressiva,   la scienza medica non conosce nessun espediente   nessuna sostanza e nessun metodo per la ricrescita dei capelli.   Ancor oggi non c’e nessun sistema pratico per curare la comune calvizie maschile.  
Si sono ottenuti tuttavia sorprendenti risultati, nella cura di un particolare tipo di calvizie a chiazze piuttosto rara   detta alopecia areata.
I medici hanno notato da tempo l’effetto degli ormoni sulla crescita dei capelli   hanno osservato   per esempio che durante la gravidanza le donne tendenti alla calvizie avevano una crescita lussurreggiante di capelli   che perdevano dopo il parto   in questi casi la crescita dei capelli pareva dovuta all’abbondante ormone femminile secreto durante la gravidanza   l’ormone maschile sembra avere l’effetto opposto   in anni recenti   furono somministrati ormoni maschili alle donne affette da cancro del seno   in molte   lo sviluppo pilifero assunse lo stesso aspetto che negli uomini   aumentò la crescita dei peli e diminuì quella dei capelli   a un certo momento sembrò che quasi tutte le ghiandole avessero una certa influenza sulla crescita dei peli e dei capelli   un tumore delle surrenali   per esempio   aveva un effetto sconcertante   stimolandone la crescita in alcune zone   diminuendola in altre   una tiroide torbida determinava spesso la caduta dei capelli   poi fu scoperto che gli ormoni corticosteroidi   come il cortisone   agivano fortemente a favore della crescita dei capelli   controbattendo   probabilmente   la alopecia areata   in un esperimento 68 persone affette da questa malattia furono trattate con questi ormoni   alcune erano calve da 25 anni   al 60 per cento circa ricrebbero tutti i capelli e al restante  40 per cento ricrebbero parzialmente   tuttavia   appena fu smessa la somministrazione degli ormoni i follicoli divennero dinuovo inattivi e i capelli caddero   iniezioni dirette di ormoni nel cuoio capelluto vengono ora sperimentate in molte cliniche specializzate e spesso si è ottenuta una abbondante crescita di capelli intorno al punto dell’iniezione e l’assoluta assenza di effetti collaterali   questo metodo è particolarmente utile per far crescere sopracciglia   o capelli in alcuni casi di calvizie a chiazze  

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Racconti e poesie

In un mondo antico e magico

Di Antonella Iacoponi

- Fanciulla, che emergi dal mare,
vieni alla luce, tesoro sepolto,
avvicinati e stai ad ascoltare:

sono un marinaio, viaggio da molto,
su questa nave, di cedri di foresta,
Ti prego, lascia che ammiri il tuo volto,

vieni con me, perché quell’aria mesta?
Vorrei scacciarla, donarti il paradiso…
Affrettati, sta arrivando una tempesta,

offrirò porpora scarlatta al tuo viso,
ti coprirò con bisso e con lino,
affinchè splenda il tuo corpo,… il sorriso,

avrai cinnamomo, mirra e biancospino;
per te tramuterò il vetro in gioielli:
collane e ciondoli, di aspetto divino,

e poi… bracciali d’ambra, dai nostri vascelli,
giunti dal Baltico, il regno del ghiaccio,
e anelli d’oro, quanti i tuoi capelli…

Vieni, mi basterà un abbraccio,
vorrei mostrarti Tiro, la mia città,
camminare in strada, dandoti il braccio,

fino a volare in nuvole di eternità,
sulle vette dell’Hermon, e là immortalare
nell’avorio la tua dolce maestà…

- Perdonami, ma devo andare,
addio, marinaio, prosegui il tuo viaggio,
sono una sirena, figlia del mare…

Grazie per questo sogno: un miraggio…

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Per dire grazie a Sergio Cammariere

di Mara Fiamberti.

In un periodo della mia vita in cui avevo deciso di non delirare più per un'artista,ma di limitarmi ad apprezzare la musica che ascoltavo normalmente, mi sono resa conto che dovevo pormi in maniera diversa musicalmente parlando.

Le canzoni,o meglio la musica in generale va capita,imparata,studiata finchè ti entra dentro e la senti tua.
Se riesci a proporre ciò che piace alla gente, ti rendi conto che non sei più sola e che trovi apprezzamento e stima.

Ascoltando la musica con un orecchio diverso ho scoperto che in realtà, anche l'artista ci appare sotto un'aspetto differente da come ci era parso a una visione superficiale.

Ho provato a contattare diversi artisti per proporre e far conoscere le mie idee ma senza successo.

Poi alla fine del 2002,ascoltando unaradio ho sentito un pezzo di un cantautore che non conoscevo.
La canzone si intitolava "sorella mia" e a eseguirla era Sergio Cammariere!

Al primo ascolto quel pezzo musicale non mi diceva assolutamente niente,eppure di Sergio Cammariere si parlava già come un'artista affermato.
Confesso che la cosa mi dava un po fastidio,forse perchè non riuscivo a capire il motivo di tanto successo..

Quando poi nel 2003 andò a Sanremo con il pezzo "Tutto quello che un uomo" entrando direttamente nella categoria big e ottenendo il terzo posto qualcosa mi colpì positivamente di questo personaggio.

Più ascoltavo il brano e più mi piaceva,così decisi di acquistare il suo disco.

Non ci volevo credere,dopo tante delusioni avute in passato con altri artisti,mi stavo infatuando di nuovo!
Il desiderio di contattarlo, non prima di avere imparato a suonare al pianoforte alcune sue canzoni, era forte.
Pensavo che non mi avrebbe mai risposto, sopratutto perché lui di lettere ne riceve talmente tante che ce ne sarebbe voluto prima di arrivare alla mia!

Qualcosa pperò dentro di me mi spinse a provare comunque a scrivergli.
Non avevo ancora il computer, infatti mi stavo accingendo a procurarmelo, allora non mi persi d'animo e mi feci dare l'indirizzo della sua casa discografica che allora era la Emi Music, in Piazza San Babila a Milano.
Il 20 maggio 2003 gli scrissi una lettera con la macchina da scrivere in nero naturalmente,e gli inviai anche un paio di mie cassette.
Non ricevetti nessuna risposta.
Tra la fine di Luglio e i primi di Agosto, andai in vacanza in Puglia e avendo già il computer ma non sapendolo usare bene andai a trovare un amico che è di Potenza,e precisamente di Avigliano e mi feci configurare il computer con tanto di casella e-mail e quant'altro serviva.

Mi pare di aver scritto la prima e-mail a Sergio verso la fine di Agosto del 2003 dopo aver trovato l'indirizzo sul suo sito,ma a quella e-mail però lui non mi rispose.
Il 28 Aprile sempre di quell'anno ero andata a vedere il suo primo concerto a Milano al Teatro Streler, ma non riuscii ad avvicinarlo.

Poi il 13 Settembre, alla fine del suo tour, lui tornò a Milano, ma questa volta al Maz da Palace,ma neanche stavolta fui fortunata!
Per niente decisa ad arrendermi,il giorno 19 Settembre, sempre del 2003, provai a riscrivergli.
Con mia immensa gioia lui rispose subito alla mia e-mail dandomi anche un indirizzo sicuro dove potergli mandare le cassette con la mia voce.
Poi mi disse che la lettera che avevo spedito alla casa discografica non l'aveva ricevuta,Così gli spedii nuovamente le cassette, con la mia voce sia parlata che cantata.

Nel frattempo venni a sapere tramite il sito di Radio Italia che il 27 Novembre doveva tenere un concerto presso quella radio,senza pensarci due volte prenotai il posto.
Questa volta riuscii ad avvicinarlo e con mia grande gioia e sorpresa lui mi trattò come se mi conoscesse da una vita.

IIo ero già pronta a dargli indicazioni per farmi riconoscere ma non ce ne fù bisogno.

Aveva già ascoltato le mie cassette e da quel momento, è nata un'amicizia, una stima reciproca.

In seguito gli mandai altri cd miei,e tutte le volte che mi capita di andare a un suo concerto gli porto altri.
Lui è contento, anche se oramai non trova più il tempo di ascoltarli subito,ma appena può li ascolta con piacere.
Il 13 Marzo di quest'anno è uscito il suo nuovo disco che porta il suo nome,ovvero "Sergio Cammariere".
La sua musica mi ha aiutato tanto,specie durante i periodi più bui e tragici della mia vita,infatti ogni suo disco coincide sempre con un percorso diverso,È come un viaggio interiore.
Quando la musica può sembrarci monotona,in realtà non lo è affatto,c'è sempre il ritmo della bossa inevitabilmente, come lui dice in una sua canzone, che s'intitola appunto, "inevitabilmente bossa".
Ma la sua personalità si riconosce soprattutto dal suo modo di suonare il pianoforte,non ha bisogno di parlare, lo senti suonare e lo riconosci subito.
Sono pochi gli artisti che rispettano il proprio pubblico e nel caso di Sergio c'è da dire che lui il pubblico lo osserva attraverso la musica,lui non fa distinzioni sul genere di musica che fai, anche se sei un dilettante lui ti incoraggia,e indipendentemente dal fatto che sei una sua fan,ti stima per quello che sei, come del resto dovrebbe fare chi non si da tante arie.
Questo è quanto posso dire di un artista e di un amico come Sergio che non mi ha mai tradito,e nemmeno ingannato dicendomi una cosa per un'altra e io non posso fare altro che ringraziarlo attraverso questo periodico.
Con la speranza che questo messaggio,o meglio questa testimonianza arrivi forte e chiaro a tutti i lettori e faccia capire chi e veramente Sergio Cammariere e ciò che e per me,ovvero un vero amico!

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Riflessioni e critiche

Memorie di una giungla politica

di Franco Vignali.

Nel corso della mia vita ho vissuto molte esperienze di vita associativa e politica.
Mi è stata raccontata da quelli più anziani di me la grande manifestazione dei non vedenti del 1954 denominata la marcia del dolore e.
Quando arrivarono a Roma, i nostri compagni furono caricati dalla polizia E buttati come sacchi di carbone sulle camionette.
Centinaia di loro furono trattenuti per alcuni giorni in carcere, ma alla fine si ottenne giustamente il primo riconoscimento di un assegno vitalizio di poche lire.
Si deve sapere che nulla ci è stato riconosciuto per merito della sensibilità politica o delle Istituzioni governative.
Noi abbiamo sempre dovuto lottare per ottenere diritti per una vita dignitosa e quindi vivibile.
Negli anni sessanta e 70 sono state ottenute le prime leggi per il diritto al lavoro grazie alle lotte associative guidate dai vari Presidenti nazionali come il Grande pioniere Nicolodi,o come Paolo Bentivoglio,e poi Giuseppe fucà, l'avvocato Chervin e infine Tomaso Daniele.
Negli anni 70 cominciò la lotta per ottenere l'indennità di accompagnamento, (con poche centinaia di lire). Oggi ci troviamo ha dover combattere per mantenere questa giusta conquista,perchè indenità vuole solo dire indennizzo per un grave handicap che crea grossi disagi e spese per il cittadino disabile e non è certamente un reddito aggiunto.
Ricordo che in una manifestazione a roma, ci trovavamo davanti a palazzo Chigi (Presidente del consiglio dei Ministri era Spadolini) io mi trovavo proprio in prima fila della manifestazione, e siccome ci eravamo troppo avvicinati al portone ci fu ordinato dal Commissario di Polizia di allora (Commissario Stella) di allontanarsi.
Noi volevamo aver la certezza e quindi l'autorizzazione di essere ricevuti dal ministro di competenza e non intendevamo spostarci da quella posizione, allora al terzo invito del Commissario ci arrivò una poderosa spinta dalla polizia, molti di noi caddero per terra, io stavo parlando al megafono e questo mi sbattè nella bocca che mi fece un po sanguinare.Ma comunque poi fummo ricevuti ed ottenemmo una parziale parificazione all'indennità che percepivano i ciechi di Guerra e per altre cause.

L'uomo deve con coscenza essere ligio ai doveri, ma anche combattivo ai diritti che la nostra carta costituzionale indica con assoluta chiarezza.
L'uomo in tutta la sua interezza e nella personale capacità culturale, politica e sociale ha il dovere di interrelazionarsi nella società con le sue capacità e sempre impegnarsi non solo per se stesso, ma anche per gli altri.

Questo racconto e dedicato anche ai lettori più giovani per farli riflettere e per invitarli ad essere più combativi socialmente e non chiudersi in un privato sterile ed egoistico.Nulla viene dal nulla,è l'insegnamento che viene dal Vangelo e quindi da Gesù.

 

 

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Elogio al portafogli

Di Giuseppe Costantino Budetta

    Questo non è un elogio sfegatato al portafogli in sé e per sé, ma la constatazione di una tangibile realtà. Non importa ciò che hai in testa, non importa l’io-corporeo e quello onirico, ma i soldi che custodisci nel portafogli. Non contano le tue idee, l’intelligenza spiccata o meno, la creatività ed il pensiero divergente o convergente. Serve il portafogli pieno. Puoi essere accondiscendente al massimo od intransigente a seconda degli eventi. Puoi essere bello, interessante fisicamente, affascinante potenzialmente, ma se non hai un buon portafogli gonfio di moneta spendibile al momento, intorno a te ci sarà il vuoto. Senza portafogli, non vali niente. Tu dici, ma non può essere. Invece è così. Guardati attorno, rifletti e ti convincerai che è così.  

   Nel portafogli, hai la certezza di te stesso. Hai le cose più importanti come la carta bancomat che infilata in apposita fessura ti permette l’accaparramento dei contanti, necessari all’occorrenza. Ci tieni la tessera plus per gli sconti al supermercato. Nel portafogli, hai il denaro di carta o di metallo; ci custodisci la tessera d’identità, la patente ed il tesserino di lavoro. Quindi, nel tuo portafogli c’è la tua identità sociale, politica ed economica. Ci puoi tenere la foto dei cari estinti che risvegliano dolci e patetici ricordi; la foto dell’agognata amata, il codice fiscale e qualche bigliettino con importanti annotazioni. Con opportuno spazio, ci puoi infilare il libretto degli assegni. Se hai il portafogli firmato, ci fai bella figura cogli amici e conoscenti. Puoi acquistarlo anche falso per pochi euro al mercato dell’usato o dai Senegalesi, ma per chi se ne intende, la qualità si vede. Per questo, fai attenzione a non esporre il falso portafogli nei megastore, dove si vendono oggetti di lusso, rinomati ed etichettati. Questi esperti negozianti riconoscerebbero alla vista l’inganno ridendo, magari alle tue spalle oppure indispettiti, ti guarderebbero come un falsario pensando: chi porta falsi portafogli non è affidabile.

    Alle osservazioni dei gestori di megastore potresti rispondere con la frase: e chi se ne fotte se il portafogli non è firmato. L’importante che sia pieno.
   A sua volta, il megastore potrebbe obiettare: chi ha il portafogli falso, in genere ha pochi soldi.  

  A parte tutto, firmato o non firmato, esso è il vero punto centrale della tua esistenza terrena. Il  vero cuore palpitante che dona vita, alimenti ed indumenti. Tastalo in tasca per controllare che ce l’hai; custodiscilo nel taschino interno della giacca, a contatto coi battiti del cuore. Tienilo sempre d’occhio, tranne naturalmente mentre dormi. Durante il sonno, quando è in azione l’io onirico che non ha bisogno di moneta reale, ma virtuale a volte, custodire il portafogli sotto il cuscino su cui si dorme è un ottimo espediente.
   Nella veglia giornaliera, occorre sentirselo addosso come un organo vitale; non lasciarlo mai in un posto dove qualcuno lo adocchi e tienilo ben stretto sui mezzi pubblici. Possibilmente, assicuralo alla giacca con una catenina così previeni i borseggiatori che una ne studiano e cento ne fanno, in particolare a Napoli sulla tratta tranviaria compresa tra Piazza Garibaldi e Piazza Municipio.
   Se lo perdessi per sbadataggine, a parte i soldi, smarriresti il vero senso dell’esistenza umana e prima o poi, moriresti di crepacuore. Senza portafogli (coi soldi dentro), non vali niente. Senza portafogli, rientrerai nella categoria dei questuanti; vivrai di stenti, alla giornata e nei posti di fortuna. Per te che non ci sei abituato, sarà la fine. Dirai che in Italia c’è qualcuno che vive bene, essendone privo. Il tipo in questione sarebbe il ministro apposito, appunto senza portafogli. Anche qui, però è bene che si sappia: l’apparenza inganna. Infatti, il ministro senza portafogli i soldi li prende e come, magari conservati negli appositi depositi bancari.

 

   Un cronista esperto di gossip ha stilato una classifica speciale in base al valore del portafogli. E’ ricco chi ce l’ha sempre pieno. Chi ha il portafogli semivuoto è un borghese di media caratura che con l’inflazione galoppante, a stento arriva a fine mese. E’ risaputo, statistiche alla mano, che arrivare a fine mese dipende strettamente dal numero dei figli, se uno ha la moglie casalinga e se sta in affitto, se ha il vizio del gioco d’azzardo, o fuma troppo. Sono le spese necessarie che di mese in mese sfilano i tuoi soldi dal portafogli, senza che te ne accorgi. Infine, ci sono i terra terra gli ultimi della categoria che hanno il portafogli con pochi soldi dentro e definiti morti di fame. Queste persone con pochi spiccioli, vivono alla giornata, nutrendosi alle mense dei poveri ed usufruendo delle eventuali protezioni sociali. Questi morti di fame dicono di essere ricchi dentro: dipende dal punto di vista. Basta non pensare al portafogli. Lo dicono anche i preti: i primi saranno gli ultimi. Quindi, per la proprietà commutativa, gli ultimi dovrebbero essere i primi. Bisogna vedere dove e come.

   Una categoria a parte meritano i magnati dell’economia nostrana e mondiale il cui portafogli è virtuale perché, come per la moltiplicazione dei pani, ne hanno tanti all’interno di una interminabile catena di Sant’Antonio. I reali o potenziali portafogli dei magnati si prolungano come tentacoli di una gigantesca piovra in un numero infinito di casseforti nostrane ed esteri sportelli. In effetti, i magnati dell’economia nostrana e mondiale hanno un unico simbolico portafogli che come un buco nero,  ingoia moneta d’ogni tipo e quantità. Il portafogli a buco nero più mangia soldi e più ne attira. Un consiglio facile, scaturito dalle menti di esperti di finanza: oh miseri mortali, non avvicinatevi ad un simile buco nero col portafogli reale o virtuale.     
Amen.

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Satira

Per ridere un pò

di Giuseppe Lurgio.

Salve a tutti!
Ben ritrovati!
Ecco per voi la consueta raccolta di barzellette che sicuramente servirà a chi soffre di nostalgia post vacanze,
buona lettura!
1) 1 Un avvocato e una bionda mozzafiato sono seduti vicini sul treno. L'avvocato si sporge verso la ragazza e le chiede se vuole fare un giochino con lui. Lei in realtà preferirebbe fare un sonnellino, ma lui insiste dicendo che il gioco è facile e molto divertente. Il gioco consisterebbe in questo: - Io le faccio una domanda e se lei non sa rispondere, mi dà 5 euro, e viceversa... La ragazza cortesemente risponde che vorrebbe riposare un po', ma l'avvocato insiste: - Okay, facciamo così, se lei non sa la risposta, mi dà 5 euro, ma se sono io a non saper rispondere, gliene do 500! Pensando di avere a che fare con una biondona è convinto di poter vincere facilmente il gioco. A questa proposta la bionda si vede obbligata ad accettare la sfida, se non altro perché una volta finito il gioco potrà dormire un po'. E allora l'avvocato inizia con la prima domanda: - Qual è la distanza tra la terra e la luna? Senza dire una parola la bionda tira fuori dalla borsetta una banconota da 5 euro e la porge all'avvocato. Ora tocca a lei, che chiede all'avvocato: - Qual è quella cosa che sale per una collina con tre gambe e scende con quattro? L'avvocato la guarda sbalordito: comincia a cercare sul computer, si collega a Internet per cercare la risposta, ma non la trova. Poi manda delle e-mail a varie persone, ma nessuno gli sa dare la risposta. Dopo un'ora sveglia la signorina bionda e le dà i 500 euro che le spettano. Lei ringrazia educatamente e si rimette a dormire. L'avvocato, scocciatissimo, la scuote e le chiede: - Bè, ma allora qual è la risposta? Senza dire una parola, la bionda prende 5 euro dal portafoglio, li porge all'avvocato e si rimette a dormire.

2) Un giovane sposo alla sposina: "Dimmi amore sono veramente il primo uomo con il quale dormi nello stesso letto??" " Si amore, se dormi....sei veramente il primo!!!"

3) Una signora si reca dal medico di famiglia con gli occhi pesti e il corpo ricoperto di lividi. Davanti al dottore ammette che le lesioni sono state provocate dal marito. E questi le dice: - Mah, pensavo che suo marito fosse fuori per lavoro! - Ehh... anch'io lo pensavo!

4) Due vecchiette: Commà! A che serve la pillola de lu juorno dopo? Commà! A digerì li piselli de lu juorno prima!

5) Un dottore al suo paziente obeso: - Se lei farà dieci chilometri al giorno per un anno arriverà sicuramente al suo peso forma! Un anno dopo il paziente telefona al dottore: - Dottore, la volevo ringraziare perché è stato come ha detto lei, ma ora ho un problema! - E cioè? - Che ora sono a 3.650 chilometri da casa!!!

6)
Due anziani seduti su una panchina al parco chiacchierano e uno dice: ma pensa tè, io non posso più bere un caffe', non posso piu' mangiare una pizza, non posso farmi piu' un cicchettino.
Ma perche' chiede l'altro?
Forse hai la pressione alta?
Nooooo,ho la pensione bassa!

7) Un uomo beve una bottiglia di whisky ogni giorno, per anni e anni.
Sua moglie, ad un certo punto, riempie due bicchieri, uno di acqua e uno di whisky e li mette di fronte al marito. Poi prende una scatola, ne estrae un verme, lo mette nel bicchiere con l'acqua e il verme nuota. Poi prende un nuovo verme, lo mette nel bicchiere con il whisky e il verme muore immediatamente.
A questo punto la donna punta l'indice verso il marito e gli fa: "che cosa ti insegna questo??".
"
Che se bevo whisky, non avro' i vermi!!"

8)...........
"Dottore, "dice un tipo, "il tranquillante che lei ha prescritto a mia moglie è formidabile. Tempo fa, invece, era talmente tesa che non riuscivo nemmeno a fare l'amore con lei!" "

E adesso?" "
Adesso ci riesce tutto il paese!"

9).............
Il professore di Anatomia allo studente di medicina: "In quante parti si divide il cranio?". Lo studente: "Dipende dall'intensita' del colpo!"

10) Un uomo sta parlando con un amico. "Sai, mia moglie è andata da un famoso dietologo". "Ed è servito?" "Sì, in 2 mesi ha perso 1500€!"

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