GIOVANI DEL 2000

 

 

Informazione per i giovani del III millennio    numero 12    Marzo 2004

 

Direttore  Prof. Carlo Monti

Vice Direttore  Maurizio Martini

Redattori  Alessio Lenzi, Mario Lorenzini

 

Redazione

Via Francesco Ferrucci 15

51100 - PISTOIA

Tel.  057322016

e-mail: redazione@gio2000.it

Sito internet: www.gio2000.it

Tipologia: notiziario

 

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Firenze al n. 4197 del 26.06.2000

 

Gli articoli contenuti nel  periodico non rappresentano il pensiero ufficiale della redazione, ma esclusivamente   quello del singolo articolista.

 

ELENCO RUBRICHE

 

Annunci

 

Comunicati

 

Cultura

 

Esoterismo, Religioni e dintorni

 

Hobby e tempo libero

 

Informatica

 

Istruzione

 

Lavoro

 

Normalità e handicap

 

Patologia

 

Racconti e poesia

 

Riflessioni e critiche

 

Spazio donna

 

Sport

 

 

In questo numero:

 

Editoriale - Di Mario Lorenzini

CULTURA

Le mani, queste sconosciute - Di Cristina Della Bianca

ESOTERISMO, RELIGIONI E DINTORNI

La dottrina religiona dei Valdesi - Di Giorgio Tron

 

Un libro da leggere - Di Maurizio Martini

HOBBY E TEMPO LIBERO

Il rabdomante - Di Angelo Ricci

INFORMATICA

Outlook Express (lezione 8) creazione di nuovi account e identità - Di Paola Vagata

 

Winguido: tanto con poco - Di Alessio Lenzi

MUSICA

"Santec Music Orchestra" - Di Vita Universale

 

Et voila, ecco Fabio Concato dal vivo! - Di Vainer Broccoli

RACCONTI E POESIA

Ruvido saio (parte terza) - Di Simona Convenga

 

Recensione Breve invito a Comisso - Di Marius

RIFLESSIONI E CRITICHE

Socrate contro i sofisti e contro noi - Di Antonino Cucinotta

 

L'amicizia - Di Elena Aldrighetti

SPAZIO DONNA

Violenza e abuso come compagni - Di Veronica Franco

SPORT

I ciechi e la vela - Di Barbara Falconi

 

La fine di un incubo e di un sogno - Di Maria Garcia

 

 

Editoriale

 

Di Mario Lorenzini

 

Cari lettori,

da questo numero abbiamo deciso di aggiungere una novità che speriamo di poter ampliare e che sarà gradita; abbiamo infatti la possibilità di offrire alcune interviste a personaggi di rilievo, sia dello spettacolo che della scienza. Interviste  che al momento, sono rese note solo in questo spazio, probabilmente dal prossimo numero, se la cosa avrà il necessario apprezzamento, verrà pubblicizzata nella rubrica comunicati, o altra apposita. Al momento pensiamo di renderla disponibile su cassetta audio, e per chi ha una connessione internet, tramite il nostro sito, mediante file mp3.

Il formato cartaceo non può ovviamente, riportare la voce degli intervistati. Vedremo, se sarà il caso, di pubblicare un riassunto del colloquio, o meglio, l’argomento dell’intervista, in modo da interessare il lettore. La cassetta, contenente la registrazione della sola intervista, o il cd, potranno essere richiesti alla redazione.

Mi auguro che la cosa possa suscitare curiosità e avere un certo prosieguo.

Stiamo inoltre vagliando, su proposta di vari lettori, alcune nuove rubriche che potrebbero arricchire ulteriormente la pubblicazione. Nel prossimo numero decidermo se e quali di queste immettere nella lista delle rubriche.

Vorremmo inoltre scusarci per il ritardo col quale siamo usciti: la colpa, o per così dire, la concomitanza di più eventi, quali problemi tecnici ai computer, la scarsa disponibilità di tempo da parte del lettore (per quel che concerne il formato audio), hanno inciso negativamente sulla velocità di lavorazione del nostro giornale. Avremmo potuto forse affrettare un po’ l’editazione, magari a scapito dei contenuti e della correttezza tipografica e altro. La preferenza è caduta invece sul concentrarci sulla qualità, cercando di dare un prodotto finito (giudicherete voi come) e non qualcosa di  simile a un pot-pourri di strafalcioni.

Per continuare su questo piano, e riuscire a mantenere una certa puntualità nel giungere a voi lettori, ci stiamo proponendo nuove soluzioni, quali una registrazione in proprio, sia dal punto di vista di chi legge i testi, che per quanto riguarda la duplicazione dei nastri. Tutto ciò in forza del numero crescente di persone che ci accordano la loro preferenza. Siamo sempre lieti di sapere che ci sono nuovi iscritti, e di qualsiasi età e grado culturale. Credo abbiano capito ormai, che “Giovani del 2000” significa solo che è stato fondato da giovani ed è diretto a persone che sono comunque giovani dentro, e non tengono conto della data sulla carta d’identità.

Esprim quindi un grazie sentito da parte di tutta la redazione di “Giovani del 2000”.

Buona lettura.

 

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CULTURA

Le mani, queste sconosciute

Di Cristina Della Bianca

 

Le nostre mani giocano un ruolo fondamentale nella vita di tutti i giorni: esse ci consentono di svolgere i compiti più disparati, ma l'uso che continuamente ne facciamo nasconde altri aspetti per così dire meno appariscenti, e forse anche per questo spesso sottovalutati.

Quante volte, parlando di una persona che tende a spendere il denaro in modo irrazionale, ci accade di affermare che "ha le mani bucate"? Oppure,
se vogliamo offrire a qualcuno il nostro aiuto, in realtà "gli diamo una mano"? O, ancora, per sottolineare uno scambio di favori tra due persone, ci viene subito in mente che "una mano lava l'altra"? E che dire, poi, di
azioni che svolgiamo quotidianamente, quali possono essere toccare, accarezzare, stringere, afferrare, prendere, e che per definizione non possono prescindere dall'uso delle mani? Simili considerazioni possono apparire riduttive, ma certo danno un'idea
di quanto queste singolari "appendici" del corpo influiscano sulla nostra vita, e non soltanto in senso puramente materiale. Ne è una prova appunto
la lingua italiana, ricca di metafore e modi di dire in cui le mani
compaiono a vario titolo.
Ma più che su quelle potenzialità che tutti conosciamo, e che ogni
giorno abbiamo modo di sperimentare, sarebbe interessante soffermarsi su altre, certamente meno note, ma non per questo meno significative. Le nostre mani sono infatti in grado di comunicare sensazioni e bisogni, di
offrire protezione e sicurezza, di curare le più svariate malattie, senza che il più delle volte ce ne rendiamo conto. La nostra cultura ci induce anzi a sottovalutare o addirittura a ignorare aspetti pur così importanti. Si può dire che abbiamo una conoscenza talmente approssimativa delle
possibilità celate nelle nostre mani, che talvolta siamo portati a provarne disagio, e persino paura. Vi sono persone che sentono imbarazzo, se non addirittura repulsione, ad essere toccate, seppure in presenza di un
rapporto basato su un certo grado di intimità, quale può essere quello di amicizia, o di amore. Esse interpretano quindi anche la carezza più innocente, o la classica pacca sulla spalla, o un tocco discreto per segnalare una presenza, come indice di un messaggio ben preciso, che può
essere ad esempio di tipo erotico. E ciò avviene proprio perché spesso non sappiamo decifrare il "linguaggio" delle mani, anche se poi siamo noi
stessi a servircene: eppure, se solo impariamo a "sentire" questo linguaggio, esso può dirci davvero molto sul conto di chi ci circonda, e anche (e forse in special modo) sul nostro conto.
Non è un caso che il primo gesto che compiamo quando incontriamo qualcuno, specie se per la prima volta, sia quello di stringergli la mano. Ed è anche a partire da una semplice stretta di mano che possiamo
costruirci un'idea, benché necessariamente approssimativa, di chi abbiamo di fronte, per ciò che attiene sia alla sua personalità sia al suo modo di
porsi nei nostri confronti. Non è difficile osservare, infatti, che una stretta calorosa, decisa ma non eccessivamente forte, non rapida ma nemmeno troppo prolungata (specie se la mano è calda e non è sudata), denota in
genere una personalità aperta, espansiva, che infonde sicurezza, e che comunque ci segnala una certa disponibilità a interagire positivamente con
noi. Al contrario, una stretta labile, data quasi distrattamente e con
scarsa convinzione (tanto più se la mano è fredda ed è sudata), indica che abbiamo a che fare con una persona generalmente poco spigliata, spesso introversa, e che comunque, presumibilmente, non compirà la prima mossa
verso di noi al fine di instaurare un dialogo costruttivo.
Ma è appunto tale bisogno di stabilire un legame con gli altri, di sentire la loro vicinanza, di trovare appoggio e conforto in caso di necessità, che ci spinge a volte a cercarne il contatto, e proprio attraverso le mani. quando qualcuno a cui siamo in qualche modo legati sta
male fisicamente, oppure ha qualche problema che lo assilla, o, ancora, si
trova magari in preda a uno stato d'ansia, il fatto di tenergli la mano contribuisce se non altro a fargli sentire la nostra presenza, e il calore della nostra mano può trasmettergli coraggio e fiducia.
Può apparire incredibile, ma determinate sensazioni vengono percepite non solo dagli esseri umani, ma anche dagli animali. L'esperienza ci insegna che spesso il cane, ma forse ancor più il gatto, prima di farsi "coccolare", tende innanzitutto ad accostare il muso alle nostre mani e ad
annusarle, probabilmente per cercare di cogliere la bontà delle nostre intenzioni.Un discorso specifico merita altresì di essere svolto in riferimento a
una pratica tanto antica quanto diffusa in tutte le culture (anche nelle più primitive), quale è la medicina: e non parliamo soltanto di quella "ufficiale" o "di sintesi", ma soprattutto di quella definita "alternativa", che in questi ultimi anni sta riscuotendo sempre maggiori consensi.
Alcune tecniche, tra cui citiamo il massaggio Shiatsu - che si propone, sfruttando secondo precise modalità l'appoggio del corpo del terapeuta su quello del paziente, di ristabilire l'equilibrio energetico - e la pranoterapia - che prevede l'imposizione delle mani sulle parti del corpo
"malate", e le cura grazie alla trasmissione di energia al paziente, escludendo pressoché il contatto fisico -, contemplano l'impiego delle mani non soltanto nell'espletamento delle tecniche stesse, ma anche, in modo
particolare, nella fase preliminare, al fine di operare una corretta
diagnosi della patologia (o dell'insieme delle patologie) da trattare. Anche i vari tipi di massaggio, da quello curativo a quello estetico, nonché numerose tecniche di rilassamento, utilizzano l'energia e il calore delle mani, che mediante appositi movimenti e pressioni, esercitati sui
vari punti del corpo, possono ristabilirne l'equilibrio temporaneamente compromesso, sciogliendo tensioni muscolari, sbloccando articolazioni e
ricreando il flusso energetico dell'organismo.
Ma, a questo livello, non si tratta solo di arrecare benefici, ma anche
di riceverne. Se è vero infatti, come afferma un principio proprio di alcune tecniche fra cui l'agopuntura cinese e lo stesso Shiatsu, che sulla mano (come sul piede, del resto) risiedono i "terminali energetici" che
fanno capo ai vari organi interni del corpo, è altrettanto vero che,
massaggiando la mano in un certo modo, è possibile agire positivamente su situazioni psicofisiche anche improvvise, quali stati d'ansia, tensione o stress.
A questo punto, sarebbe eccessivo affermare, riprendendo uno slogan di
cui si è forse un po' abusato, che "una mano allunga la vita"? Certo, se solo imparassimo a fidarci un po' di più di noi stessi, e di conseguenza degli altri, ad apprezzare il valore profondo di una carezza, di una mano che cerca la nostra, questa affermazione potrebbe suonare un po' meno banale, e chissà, persino un po' più vera.

 

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ESOTERISMO, RELIGIONI E DINTORNI

La dottrina religiosa dei Valdesi

Di Giorgio Tron

 

«L'origine del movimento religioso valdese, in opposizione alla Chiesa Romana, ebbe luogo,

secondo la tradizione, intorno al 1173 e non per opera di un dotto, di un ecclesiastico, un  monaco, di un teologo, bensì di un facoltoso mercante di Lione ignaro di sottigliezze teologiche ma ricco di vita interiore ed ardente di fede e d'amore per il prossimo, Pietro Valdo. Colpito dalla morte subitanea di un intimo amico, Valdo decise di seguire la parola del Cristo al giovane ricco: - Va, vendi quello che hai e donalo ai poveri. Poi vieni e seguimi»; e mentre egli distribuiva agli indigenti il suo vistoso patrimonio, volle pure fare il loro nutrimento

spirituale, quel Vangelo nel quale egli aveva trovato la pace dello spirito, facendo tradurre dal latino in volgare vari libri sacri che egli leggeva e commentava ai suoi beneficati.

Il numero di seguaci di Valdo andò ben presto aumentando ed egli diede rapidamente fine alle sue sostanze. Il clero, inquieto per questo movimento, proibì a Valdo e ai suoi discepoli di occuparsi di predicazione e, questi non avendo obbedito, il Vescovo di Lione li espulse dalla sua diocesi nel 1176.

Quelli che poi furono chiamati i Poveri di Lione o Valdesi; vennero scomunicati dal Concilio di Verona nel 1183. Dichiarati eretici di fronte alla cristianità, i Valdesi si dispersero in tutta l'Europa, trovando rifugio specialmente in quei paesi nei quali esistevano già altri avversari alla Chiesa Romana, egualmente perseguitati.

Il punto di partenza di Valdo fu il concetto della vanità delle ricchezze, della santità della povertà volontaria e della necessità assoluta di riferirsi, in materia di fede, unicamente alla autorità delle Sacre Scritture, rigettando tutto quanto di umano era stato introdotto nella dottrina e nella prassi della Chiesa di Roma.

Nello studio delle Sacre Scritture, il senso pratico e le scarse tendenze speculative dei Valdesi li portarono ad una interpretazione letterale, all'esclusione di concezioni mistiche ed allegoriche e di sottili disquisizioni teologiche.

Per quanto si riferisce al dogma della Trinità, i Valdesi non si scostarono dalla dottrina della Chiesa Romana. Essi veneravano la Vergine Maria ma non la adoravano; veneravano pure i Santi ma non ammettevano esservi altri intercessori presso il Padre Celeste che Cristo, figlio di Dio, Dio e Uomo, autore dell'opera di redenzione dell'umanità caduta in perdizione in seguito al peccato originale. Ritenevano che l'uomo è salvato dalla fede e dalle opere e che la Chiesa, di origine divina, fu pura, nei tempi apostolici finché cadde nell'apostesia, per cui i veri credenti e fedeli cristiani non possono riconoscerne autorità.

I Valdesi primitivi ammettevano i sacramenti della Chiesa di Roma: il Battesimo, l'Eucarestia celebrata sotto le sue specie, il confessore non pronunciava la confessione ma diceva: - Deus te absolvat -. La penitenza, largamente praticata, consisteva unicamente nel digiuno e nella preghiera. Essi ritenevano non lontana la fine del mondo, non credevano nel Purgatorio, le sofferenze della vita presente essendo sufficienti per purificare l'anima quando il peccatore si ravvede, e quindi ripudiavano tutto l'edifizio dei suffragi, delle indulgenze, delle messe e della intercessione dei Santi in favore dei defunti.

I Valdesi ebbero principii etici rigidissimi e l'austerità del loro costume fu oggetto di ammirazione anche da parte dei loro più diretti avversari. Non ammettevano la pena di morte. La dottrina religiosa dei Valdesi primitivi appare ancora fluida, sotto determinati punti di vista; ciò non può destare meraviglia quando si ricordi che il movimento religioso di Valdo si era manifestato più nel campo dell'etica che in quello del dogma, non essendo i Valdesi dei sottili teologi e che essi non volevano separarsi dalla Chiesa di Roma ma miravano unicamente a costituire nel suo seno una minoranza fedele alla parola di Cristo. Così, per vari secoli frazioni di Valdesi seguirono ancora talune pratiche ecclesiastiche della Chiesa Romana, acendo battezzare dai preti i loro bambini; ed assistevano alle punizioni religiose. I Valdesi disseminati in tutta Europa non avevano vera e propria rigida unità di indirizzo in tutte le questioni dogmatiche, pur essendo tutti fermamente uniti nell'opposizione a vari punti fondamentali della dottrina della Chiesa Romana.

Nel XVI secolo, la Riforma staccava gran parte dell'Europa dal dominio della Chiesa di Roma e i Valdesi aderirono ufficialmente a questo movimento nel 1532. Si è molto discusso sulle relazioni tra Valdismo e riforma e sull'influenza che questa ebbe dopo, sulle originali dottrine dei Valdesi; non sono mancati i contrasti, fra le molteplici vedute degli storici.

Esaminando obiettivamente il problema, bisogna riconoscere anzitutto che pur non potendosi definire i Valdesi primitivi come dei veri riformati, essi paiono in certo modo dei precursori, dei riformatori, in quanto come questi essi fondano la loro dottrina sulle dichiarazioni delle Sacre Scritture e unicamente su quelle, respingendo la tradizione, ormai

corrotta, come base della fede; e tutto quanto di puramente umano era stato introdotto nel dogma e nella prassi ecclesiastica della Chiesa Romana.

La Riforma fu opera di dotti, di umanisti, di ecclesiastici; i Valdesi, venendo in contatto con i riformatori ginevrini non potevano non subire l'influenza della loro opera e della loro teologia ma la Riforma non venne imposta ai Valdesi; fu da essi accettata dopo ampio esame e serena discussione nel loro sinodo, nel settembre del 1532.

L'influenza del movimento spirituale della Riforma si fece risentire sulla dottrina religiosa dei Valdesi specialmente nel campo della prammatica. Il movimento Valdese aveva fondamento più nell'etica che nel dogma: condurre una vita santa, aderente ai principii del Vangelo, era lo scopo cui tendeva il credente, il quale non si preoccupava di disquisizioni e sottigliezze teologiche. Con la Riforma, invece, il dogma si precisa e si fissa; sotto il suo impulso si nota una evoluzione progressiva della dottrina e della prassi ecclesiastica valdese nel senso dell'abbandono di dogmi e di pratiche della Chiesa Romana, ancora in uso e non ritenute conformi alle dichiarazioni del Vangelo. Così i grandi principii della Riforma, della salvezza per fede e della nuova nascita per opera dello Spirito Santo, prima nella dottrina valdese non ben definiti, diventano parte essenziale di quel credo.

Un carattere distintivo costante, ancor oggi, del movimento religioso valdese consiste nella sua assoluta indipendenza da coefficienti politici, sociali o economici.

I Valdesi, soli senza mezzi e con la costante ostilità dei regnanti e dei cattolici, diedero vita a un fenomeno puramente ed esclusivamente religioso, vittorioso, nei secoli, delle persecuzioni. Esso appare, oggi, fedele alla pura dottrina evangelica della Chiesa Apostolica primitiva e alla sua prassi.

 

Nota della Redazione

 

Chi avesse intenzione di sviluppare un approccio profondo alla dottrina religiosa valdese non ha che da mettersi in ascolto del notiziario da essi curato ogni domenica mattina su RadioUno Rai, nel quale si fa sempre menzione, pure, degli indirizzi dei vari templii valdesi nelle maggiori città italiane.

 

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Un libro da leggere

Di Maurizio Martini

 

Con questa breve recensione, desidero portare alla vostra attenzione la lettura di un libro che lo si voglia o no, apre suggestive prospettive di soluzione per uno dei casi più misteriosi del XX secolo, il disastro della tunguska. Il giorno 30 giugno 1908, nella taiga siberiana accadde un qualcosa di spaventoso, di grande, di veramente misterioso. Spaventoso perché, l'energia che si abbattè in quel punto di territorio distrusse completamente 2200 kmq di taiga, portando oltre alla rovina del luogo, anche mutazioni diciamo così genetiche alla vegetazione di quel posto.

A più di un secolo, molte sono state le ipotesi proposte per dare una spiegazione scientifica al disastro. Si è parlato di grosso meteorite che avrebbe impattato con il nostro pianeta, altri hanno parlato anche di antimateria venuta a contatto con la nostra terra, qualcuno ha ipotizzato l'esplosione di gas naturale contenuto nel permafrost presente in quei luoghi.

Insomma, le teorie sono molte, ma ognuna di esse non ha mai retto fino in fondo; una dopo l'altra, sono sempre crollate a successivi studi che hanno messo in rilievo mancanze di spiegazioni in questo o in quel punto. Recentemente un ricercatore italiano, il Dott. Costantino Paglialunga, ha reso disponibile per tutti un approfondito studio su questo mistero ancora irrisolto. Questo esperto studioso della realtà extraterrestre, ha scritto un'avvincente libro ricco di colpi di scena e convincenti ipotesi, che veramente potrebbero avvicinare il lettore alla soluzione del caso Tunguska. Il libro in questione, non è in vendita, ma lo si può scaricare gratuitamente dal sito internet: www.nonsoloufo.it. La scelta di non far pagare il proprio libro non è casuale, ma fortemente voluta dallo stesso autore al fine di favorire la diffusione di certe realtà altrimenti troppo difficili da trovare dal semplice lettore. Paglialunga è un amante della verità, e il suo desiderio massimo, è che il numero maggiore di persone sappia, specialmente in questo momento storico che l'umanità sta attraversando, un momento estremamente delicato per non dire pericoloso. Per chi avesse difficoltà a collegarsi al sito non solo ufo.it, può inviare un'e-mail alla nostra redazione richiedendo il libro, e provvederemo ad inviarlo direttamente noi a chiunque lo desideri.

 

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HOBBY E TEMPO LIBERO

Il rabdomante

Di Angelo Ricci

 

Il Rabdomante, è quella persona capace di trovare l'acqua che si trova nel sottosuolo; il metodo che usa non è unico, ma ognuno di loro usa metodi diversi. Cè chi utilizza un piccolo bastoncino di legno di salice, chi prende un cavetto di acciaio, io invece uso due fili di ferro zincato, comunque i modi anche se diversi, hanno lo stesso scopo, e con lo stesso risultato, tutto dipende dalla sensibilità dei soggetti. Il sistema, che sia il bastoncino, che il cavetto, quando sono nelle mani, al momento che avvertono l'acqua iniziano a girare su sé stessi e a seconda della velocità di movimento, nel terreno sottostante capiamo se c'è più o meno acqua, e se il movimento è più veloce, ciò significa che c’è più acqua. Il metodo che uso io è diverso, perché i fili di ferro zincato vanno tenuti singolarmente, uno in una mano e uno nell'altra, la forma dei fili per l’impugnatura, deve essere piegata a forma di manico di pistola, quindi la parte che viene tenuta nelle mani è il manico, e la parte rimanente deve puntare in avanti così unendo i pugni, parallelamente davanti a me, e tenendo i fili anche'essi in parallelo, mi muovo in varie direzioni, fino a che i fili in questione non assumono un movimento univoco, voglio dire, che i fili, tenendoli stretti nelle mani, devono girarsi in un senso o nell'altro, ma sempre parallelamente e quando l'acqua è sufficiente nel terreno, assumono una curva abbastanza chiusa, a quel punto siamo sicuri che lì possiamo scavare e certamente, troveremo l'acqua.

Questo metodo per trovare l'acqua è nato verso il cinquecento, e sembra strano, è rimasto tuttora il metodo più valido anche se i metodi moderni sono avanzati, ma essendo più complicati, hanno un costo maggiore e sono meno pratici, perché sono a volte molto ingombranti i macchinari richiesti, quindi difficili da trasportare soprattutto in località dove c’è bisogno, ma non possono accedere.

 

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INFORMATICA

Outlook Express (lezione 8) creazione di nuovi account e identità

Di Paola Vagata

 

Come espresso nel titolo, nelle tre lezioni che seguono vedremo come creare un nuovo account e una nuova identità. Qual è la differenza fra Account e Identità? Per Account si intende l'insieme di informazioni necessarie ad un programma di posta per consentire l'invio e la ricezione dei messaggi di una casella di posta elettronica. L'identità, invece, è un'istanza (come una copia) di Outlook Express, in cui inserire più account di posta. La creazione di una nuova identità nasce dall'esigenza di far lavorare più persone in uno stesso computer; ogni identità, infatti, può essere protetta da password, in maniera che soltanto l'interessato possa accedervi.

In questa lezione vedremo come aggiungere un account; nella prossima andremo ad analizzare la pagina tabulata relativa alle proprietà di un account, mentre nella lezione 10 parleremo delle identità.

Possiamo invece aver bisogno di creare nuovi account, specialmente da quando sono nati i provider gratuiti, per vari motivi. Per esempio, possiamo decidere di riservare una casella per la corrispondenza privata, un'altra per i messaggi dalle mailing list ed una terza per farci mandare eventuali allegati.

Proviamo adesso a creare un account, supponendo che l'indirizzo di posta elettronica sia giuseppe.bianchi@libero.it. Naturalmente, lo rammento, dobbiamo aver prima effettuato la registrazione al provider e dobbiamo essere in possesso di tutte le informazioni riguardanti il Pop3 e l'Smtp del provider in questione. Procediamo.

1) Andiamo nel menu Strumenti, poi con la freccia scendiamo sulla voce "Account" e confermiamo con Invio, oppure digitiamo semplicemente la lettera A (come "Account" appunto); in questo caso non è necessario confermare con Invio;

2) Qui troveremo elencati gli account che abbiamo configurato; per aggiungerne uno nuovo, con Tab spostiamoci sul pulsante  "Aggiungi" e clicchiamo con Spazio;

3) Abbiamo ora la possibilità di scegliere fra posta elettronica e news, ma trattandosi di posta elettronica, premiamo Invio sulla relativa voce;

4) Come primo passo, dobbiamo scrivere il cosiddetto "Nome visualizzato", o "Nome reale", quello che chi leggerà i nostri messaggi vedrà apparire; nel nostro caso, quindi, scriveremo Giuseppe Bianchi (attenzione: se il nome da visualizzare è diverso da quello già presente, occorre cancellare il vecchio nome prima di scrivere quello nuovo);

5) Portiamoci con Tab sul pulsante "Avanti"" e clicchiamo  sempre con Spazio;

6) Qui abbiamo la possibilità di utilizzare l'indirizzo che ci è stato fornito all'atto della registrazione al provider, oppure di effettuare un'iscrizione ad un nuovo account; troveremo già attivato il pulsante radio relativo all'opzione che ci interessa ("Utilizza l'indirizzo già disponibile"); con Tab, dopo aver cancellato l'indirizzo presente in quel momento, scriviamo quello relativo alla casella da aggiungere (giuseppe.bianchi@libero.it); spostiamoci con Tab fino al pulsante Avanti e clicchiamo, sempre con la barra spaziatrice;

7) Ci verrà chiesto adesso di inserire il pop3, cioè il server della posta in arrivo (nel nostro esempio: popmail.libero.it); con Tab, ci porteremo poi nel campo in cui dovremo inserire il server della posta in uscita, o Smtp, che dovrà essere quello del provider da cui effettuiamo la connessione (nel caso di Libero, sarà: mail.libero.it, ma può essere diverso a seconda del provider con cui ci si connette); con Tab portiamoci poi sul pulsante Avanti e clicchiamo ancora;

8) Scriviamo adesso il nome account (in questo caso, lo troveremo già scritto: giuseppe.bianchi); con Tab andiamo a scrivere la nostra password nel relativo campo; spostiamoci ancora con Tab e ci troveremo già attivata la casella di controllo relativa alla memorizzazione della password ("Memorizza password"), in modo che Outlook Express non ce la chieda tutte le volte che andremo per ritirare la posta; con Tab, poi, troveremo una voce, "Accesso tramite autenticazione password di protezione", la cui casella di controllo, nella maggior parte dei casi, deve essere disattivata (alcuni provider, come ad esempio Email, ne vogliono l'attivazione, ma tutto questo verrà specificato durante la registrazione al servizio); andiamo a raggiungere con Tab il pulsante Avanti, e lì cliccheremo;

9) Tutte le informazioni sono state inserite, quindi cliccheremo sul pulsante Fine;

Nota: per i provider che richiedono l'autenticazione della password, bisogna andare ad attivare un'altra casella di controllo, e procederemo in questo modo:

a) Dopo aver cliccato sul pulsante "Fine", andiamo a cliccare    sul pulsante "Proprietà, raggiungibile con Tab;

b) Nella pagina tabulata che ci si presenterà, portiamoci sulla sottopagina "Server e, con Tab, andremo ad attivare la casella di controllo relativa alla voce "Autenticazione del server necessaria";

10) Dopo aver eseguito tutte le operazioni, con Tab troviamo i seguenti pulsanti: Predefinito (se clicchiamo qui con Spazio, l'account diventerà "predefinito", cioè "principale"; appena si andrà a scrivere un nuovo messaggio, ci apparirà automaticamente l'indirizzo dell'account predefinito), Importa (da cui è possibile importare gli account precedentemente salvati su dischetto o su altra parte del disco fisso), esporta (che permette di salvare gli account su floppy o su altra directory), e "Chiudi";  clicchiamoci con Spazio e torneremo nell'elenco della posta in arrivo. Nella prossima lezione prenderemo in esame le proprietà di un account.

 

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Winguido: tanto con poco

Di Alessio Lenzi

 

Quanto sto per scrivere in questo breve articolo, sicuramente non renderà mai giustizia al programma che in questo numero vado a presentare.

Si tratta di Winguido, nome che a qualcuno potrebbe dare già delle grosse indicazioni, per averlo utilizzato tante volte, ma che sono convinto ai più non possa dire molto. Si tratta di un software molto potente che è stato realizzato, con grande impegno e passione, dall'ingegner Guido Ruggeri di Roma, persona che potremmo senza alcun gioco di parole definire un autentico "genio" dell'informatica.

Tale applicativo, permette a tutti i ciechi e ipovedenti, ma perché no anche ai normodotati, di svolgere in tutta semplicità ed autonomia tutta una gamma di applicazioni utili per la quotidianità della vita domestica ma anche del lavoro in ufficio. Infatti, tale applicazione racchiude dentro di sé, una potente ma semplice agenda, una rubrica telefonica, l'immancabile calcolatore e tutta un'ampia serie di applicazioni anche parecchio complesse come una contabilità familiare e la redazione di documenti. Oltre a queste funzioni oramai consuete per un applicativo per computer, Winguido ne racchiude altre che lo rendono molto originale ed utile, pensiamo per esempio alla funzione per la richiesta di ricette di cucina, o alla possibilità di poter, mediante una funzione del calendario, fare il calcolo esatto dei giorni di ferie e così via. Trovano posto anche giochi di carte, un po' di svago non guasta mai, e per i patiti di enigmistica, la possibilità di risolvere dei cruciverba. Molto importante è la capacità che Winguido ha di poter interagire con la rete internet, infatti, mediante questo mezzo, si possono agevolmente prelevare libri e giornali, navigare nel web, scrivere e leggere posta elettronica e farsi i propri orari ferroviari. Questa è solo una piccolissima carrellata di quello che questo programma è capace di fare; a mio avviso, fareste molto bene a provarlo ed utilizzarlo, ne rimarrete stupiti!

Venendo a discorsi un pò più tecnici, questo programma non è uno screen reader che vi permette di esplorare lo schermo del computer, ma è lui stesso a leggere per voi quello che accade e a segnalarlo prontamente, per mezzo di sintetizzatore di voce o display braille. Infatti, non appena lo installerete, esso comincerà subito a parlare in quanto monta direttamente al suo interno una sintesi vocale che ne permette l'utilizzo immediato senza dover necessariamente disporre di apparecchiature hardware costose ed oggigiorno praticamente inutili, dopo l'avvento delle nuove schede audio a doppio canale.

Venendo adesso alla cosa che forse più vi state chiedendo, ma tutto questo ben di dio quanto mi costa? Bene, la risposta è molto semplice, il software è gratuito! Infatti, l'ingegner Ruggeri sta sviluppando questo programma esclusivamente per passione, e per questo non chiede soldi per il suo sviluppo futuro. Oltretutto, il software viene continuamente da lui aggiornato e migliorato grazie ai suggerimenti che gli sono stati indicati da noi utenti. Quindi, questo programma è cresciuto anche grazie a noi che lo utiliziamo e segnaliamo all'autore tutto quello che non va ed egli, quando può, cerca di porre rimedio nel miglior modo possibile. Gli aggiornamenti si possono scaricare da internet in tutta autonomia, per poter avere il software sempre al top. Allora cosa aspettate, provate Winguido! Per poter prendere il programma e saperne di più, andate sul sito: www.winguido.it, e da li seguite tutte le istruzioni per il download. E chi non ha internet? Bene, chiamate in redazione o scriveteci e vedremo di venirvi in contro. Spero con questo breve articolo introduttivo, di avervi reso l'idea sulle potenzialità di questo applicativo e, perchè no, avervi incuriosito. Spero che nei prossimi numeri si possa parlare ancora di questo programma e vi do appuntamento alla prossima uscita di Alessio Lenzi.

 

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MUSICA

"Santec Music Orchestra"

Di Vita Universale

 

Santec Music è una nuovissima etichetta indi-pendente tedesca, sorta nel 2003, che propone una nuova musica orchestrale basata sull’incontro del patrimonio classico con le nuove tendenze di ricerca melodica ed espressiva. Ha propri studi di incisione a Würzburg e un proprio gruppo di musicisti, quasi tutti provenienti da studi classici.

Santec Music propone due linee di produzione:

“Nature” – Nuove composizioni ispirate alla natura. Musica composta e suonata dai musicisti stessi con buoni arrangiamenti, pochissima elettronica. Incisione e missaggi curati dalla Masterlab.de di Berlino. Questa musica era nata anni fa inizialmente per soddisfare le esigenze di “Radio Santec” che oltre alla produzione internazionale per varie emittenti si è allargata a documentari e produzioni Tv – La musica quindi si è orientata verso la colonna sonora e ampliata con bellissime melodie ed arran-giamenti, fino alla musica da rilassamento o new classic.

“Classic Line” : Oltre alla linea “Nature” sono previste altre produzioni con artisti ed Orchestre esterne come ad esempio la “RTV” di Mosca, l’orchestra della Radio Televisione di Stato diretta dal M.o Anatoly Nemudrov. Queste collaborazioni sono nate dallo scambio con Radio Santec.

A fine Novembre 2003 è prevista l’uscita di un Cd con l’orchestra di Mosca con opere di Edward Grieg, ed un cd di arpa solo di Tobias Southcott, un virtuoso emergente di Ulm di origini indo-irlandese che propone dapprima brani del repertorio classico da Bach a Debussy. Nel 2004 sono previsti un Cd di arpa “Nord-irlandese”, ancora di Southcott e un cd con arpa ed orchestra con opere classiche suonate da RTV di Mosca.

Per la linea “Nature” altri due Cd che proseguono la linea orchestrale-strumentale con nuove composizioni. Verrà inserita la chitarra elettrica come strumento “classico” nell’or-chestra con funzioni melodiche.

 

Santec Music Orchestra

 

L’Orchestra è nata sotto la spontanea collaborazione di diversi musicisti di diverse nazionalità (tedesca, austriaca, italiana, francese, svizzera e spagnola) quasi tutti di provenienta classica: Renate Gogl – violini, Otto Gogl violoncello, Christiane Seeger violini ed arpa, Christian Perriat flauti, Pan, sassofoni e tastiere – Markus Kohlprath chitarre Montze Campos – Arpa celtica, Michael Gross -Trombone, Tromba, Tuba e xilofono, Matthias Köbler pianoforte. Per l’incisione l’Orchestra si avvale anche di altri musicisti per l’impiego di organici più ampi.

Come detto, la natura è la fonte di ispirazione delle composizioni dei singoli musicisti che vengono però arrangiate insieme dall’organico in modo originale e studiato nei particolari, anche con l’aiuto del computer. Nel 2003 nascono così tre nuovi CD “Living Nature” – “Moving Elements” – “Moment of Silence” – L ‘etichetta sceglie l’inglese ed il mercato internazionale. Ha una propria pagina Web: santec-music.com dove è possibile ascoltare i cd ed un proprio studio grafico ad Amburgo (Art & Rodina Creating). L’immagine e la linea grafica hanno grande importanza oltre al suono naturalmente, che deve poter essere ascoltato anche in auto… In generale si può dire che questa musica propone dei brani molto gradevoli e rilassanti che si indirizzano al pubblico dai 25 anni in su, che conosce già la new age ma che si orienta su qualcosa di più elaborato, oltre al pubblico di musica classica che desidera qualcosa di più leggero e moderno.

Hobby dei musicisti? Amano la natura e sono vegetariani.

Contatti: Tel. 0049-3903190 Fax 3903195 – Internet www.santec-music.com

Radio Santec – Marienstr. 1 – 97070 Würzburg - Germania.  q

 

Nota di Maurizio Martini

 

L’articolo appena letto, credo non renda del tutto merito alle  sensazioni e la qualità della musica offerta e prodotta da questa nuova etichetta musicale.

Ho deciso di aggiungere qualche riga all’articolo per il semplice motivo che, avendo avuto l’opportunità di ascoltare uno dei cd prodotti da santec music, e avendo io stesso studiato musica classica per parecchi anni, sento di poter dire in assoluta tranquillità che ci troviamo di fronte ad un prodotto valido e istruttivo.

Come ben sanno gli addetti ai lavori, la musica classica  almeno in Italia, è pressoché sconosciuta al grande pubblico. Ovviamente, questa è una grave mancanza sia da un punto di vista culturale, ma anche spirituale. La musica classica,quando ben ascoltata, è in grado di dare veramente molto alla persona. Ora, per chi è completamente a digiuno di classica, santec music è un ottimo compromesso fra musica classica e new age. Come riportato nell’articolo possiamo parlare a giusto titolo di new classic. Per chi desiderasse ulteriori informazioni, oltre che agli indirizzi riportati nell’articolo, può contattarmi direttamente in redazione all’indirizzo:

 redazione@gio2000.it

 

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Et voila, ecco Fabio Concato dal vivo!

Di Vainer Broccoli

 

Molte volte, nella carriera di un musicista, si sfrutta un tour live per fare uscire un disco che muove il mercato dell’artista stesso; in tante, troppe occasioni, le tournee sono un modo per camuffare la carenza di idee…; per Fabio Concato non è stato così:

nell’ambito della carriera pluridecennale dell’artista milanese non si era mai avuta l’occasione di veder uscire un suo disco live; lo stile elegante, raffinato e di indubbia qualità, per altro, ha sempre permesso a Concato stesso, di proporsi in vesti sempre accattivanti, per molti, ma, indubbiamente, non per tutti; la fine del 2003, sorpresa, ha visto l’uscita del primo disco dal vivo di Fabio Concato che, in perfetta linea con lo stile dell’autore, si presenta, comunque, con delle caratteristiche particolari anche nell’unico inedito presente che dà anche il titolo all’intero cd.

Molti pezzi sono cantati in duetto con altri grandi nomi della musica italiana.

In questo album sono presenti nomi come Lucio dalla (col quale canta 051 22 25 25), Samuele Bersani ed Anna Oxa; proprio la presenza della cantante di origine albanese in questo disco, è sintomatica: con lei, infatti, Concato si presenta sul palco del tour 2004 creando un binomio vocale d’indubbio effetto.

Voci di corridoio, rivelatesi poi infondate, scommettevano sulla presenza di questo duo inedito sul palco dell’Ariston, ma le recenti convocazioni di Tony Renis hanno smentito quello che, a mio avviso, era un desiderio degli addetti ai lavori più che un vero e proprio rumor.

Ma quali sono state le motivazioni dell’uscita di questo lavoro dal vivo?

“…dopo tante esperienze nuove, dopo aver riveduto, corretto e riarrangiato tante mie canzoni”, Dice Concato in un’intervista su Radio Rai, “…ho voluto riproporre le mie emozioni suonando i miei pezzi in maniera tale da avvicinarli il più possibile alle versioni originali…”.

La verità è che i brani del cantautore milanese risultano sempre gradevoli e, grazie alla scelta di musicisti di altissimo livello, vengono risaltate le grandi qualità artistiche dell’autore.

Nella musica di Fabio Concato, se la si ascolta con attenzione, non può sfuggire l’origine jazzista del creatore che ha visto i suoi albori artistici come chitarrista di altissimo spessore; “Et Voila”, tra l’altro, può essere il modo per dare, a chi non avrà l’occasione di assistere al tour, l’opportunità di gustare la qualità live di un autore italiano sulla breccia da moltissimo tempo, ma troppo poco apprezzato dalle grandi masse e dalla critica stessa.

In definitiva “Et voila” risulta una prova lampante di come la musica italiana può mettere in risalto delle qualità che, troppo spesso, cerchiamo sempre in autori d’oltre confine.

 

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RACCONTI E POESIA

Ruvido saio (parte terza)

Di Simona Convenga

 

Vi é forse al mondo un uomo, che libero dal bisogno della stretta sussistenza, non aspiri alla ricerca della immortalità, a ritrovare il Paradiso perduto, ad unirsi all’intero universo, a tornare alle origini, vincere la morte, estremo segreto, dopo avere compreso quello che la Natura svela soltanto a taluni spiriti illuminati, che sanno fondersi in essa, e costoro, una volta scoperto il Mistero, cerchino loro simili, che animati da identica assoluta tensione, siano in grado di comprendere il Grande Segreto.

Vi sono esseri  più ricettivi e più disponibili,  in grado, non solo di comprendere, ma anche di applicare le tecniche necessarie alla scoperta del mistero e, per essere certi che la Tradizione non cadesse in mani sbagliate, si è cominciata da parte dei maestri, una severa selezione mediante il superamento di prove particolarmente difficili e pericolose che garantissero la forza interiore dei candidati e la loro pertinacia nella ricerca del vero.

Un’ulteriore garanzia della maturazione del candidato era rappresentata dal tipo di linguaggio, palesemente simbolico, che veniva usato per la trasmissione del Segreto e dal fatto che tale trasmissione era fatta per gradi, cosicché, non comprendendo la prima parte della comunicazione, era impossibile comprendere le successive.

Ciò viene chiamato con il termine di “iniziazione”, volendosi così indicare proprio l’atto di iniziare qualcosa; nella specie, una ricerca assoluta.

Gli altri esseri, non ancora pronti per ricevere, sia pure nei modi mistici indicati, il Segreto, non restavano del tutto trascurati. A costoro l’Arcano veniva “rivelato” attraverso miti, leggende o parabole che avevano lo scopo di gettare un seme, uno stimolo al risveglio, vale a dire alla proposizione intima di quelle tematiche che, in qualche modo, potevano risvegliare l’interesse alla Grande Ricerca. Tali miti e leggende, formalmente, facevano leva sul piano mistico e morale, ponendo l’accento su quei sentimenti che erano più vivi, in relazione al tempo ed alla cultura degli esseri che si volevano stimolare. Il coacervo di miti, di leggende e di parabole, di volta in volta raccontate alla generalità degli uomini, ha sempre preso il nome di religione. Da una parte, dunque, i fedeli alla religione del momento e dall’altra i circoli misteriosofici dove il Segreto viene trasmesso da bocca ad orecchio, da maestro a discepolo; da un lato la verità rivelata e dall’altro le tecniche della realizzazione trasmesse, individualmente, per gradi di acquisizione di coscienza.

In comune vi è la verità del messaggio, il contenuto nascosto della comunicazione che si rivolge ad esseri di livello evolutivo diverso. Agli iniziati compete una comunicazione particolare, che tiene conto del grado di coscienza raggiunto, in cui l’iniziazione non è che il riconoscimento di un qualcosa che è già acquisito; la comunicazione successiva potrà aver luogo quando un altro pezzo del mosaico sarà stato completato e collocato al suo posto. E’ la Scala Philosophorum di cui parla la Tradizione.

Al fedele compete soltanto la parabola, lo psicodramma capace di suscitare almeno una visione etica dell’esistenza con possibili coinvolgimenti dell’essere verso la verità nascosta dalla “rivelazione”.

In questo senso il Cristianesimo non fa eccezione e, come tutte le religioni, propone la fede nella storia della nascita, vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che si è fatto uomo per redimere i peccati e, attraverso il sacrificio di se stesso, morendo sulla Croce, indicare agli Uomini la via della Salvezza. Ma rispetto alle religioni che l’hanno preceduto, il Cristianesimo, forse in linea con l’Era dei Pesci, il cui avvento ha coinciso con la sua affermazione, introduce una grossa modificazione nei metodi seguiti dalla Tradizione per proporsi agli Uomini; non vi è più, infatti, una differenziazione di messaggi a distinguere coloro che si risvegliano alla Ricerca da coloro che tale Ricerca ancora non intravedono neppure. Il messaggio cristiano è lo stesso per tutti, iniziati e non, mistici ed indifferenti, indagatori e materialisti, sono tutti uguali davanti alla Verità, stavolta per tutti “rivelata”.

Ed allora la garanzia che la Tradizione richiede per far conoscere il Segreto soltanto a coloro che lo possono comprendere consiste unicamente nel modo diverso di proporsi davanti alla medesima verità; ecco il senso della rivoluzione portata dall’Era dei Pesci nella cultura iniziatica dell’Occidente. L’Iniziazione rimane per coloro che vogliono imparare a porsi davanti alla Verità in modo acconcio onde togliere il velo che la copre ed in ciò consiste la Scala dei Filosofi cui, nel Cristianesimo, corrisponde, evidentemente, la successione dei gradi che portano al sacerdozio.

Bisogna dire che il Cristianesimo si affaccia alla storia dell’Uomo in coincidenza, se così si può dire, con l’ingresso dell’Umanità nell’Era dei Pesci e di quest’Era interpreta correttamente i principi e le tendenze. Basti pensare alle caratteristiche di questo periodo storico sottolineato dalla tendenza alla diffusione.

Pensiamo soltanto che, in contrasto con la precedente era dell’Ariete, i Pesci portano tutto a tutti. La scienza è dispensata a tutti e non riservata ai circoli misterici in cui la Verità veniva comunicata a pochi adepti; la società non ha più segreti per nessuno; e così anche la Religione si serve della Verità rivelata a tutti. Non più misteri, non più circoli pitagorici ove il Sapere veniva impartito a diversi livelli. Soltanto la storia della vita del Cristo uguale per tutti.

La differenza consiste nella diversa capacità di lettura del messaggio che cambia in funzione della maggiore o minore coscienza dei soggetti.

In questo contesto, si comprende come la Chiesa non potesse che scendere sul terreno della morale che rappresenta la chiave di lettura più semplice del messaggio cristiano ed in tale prospettiva doveva imporre ai propri fedeli una interpretazione unica che implicava necessariamente la mediazione del sacerdote nel rapporto dell’uomo con il divino.

Così impostato il problema, si comprende come la Chiesa non potesse tollerare la diffusione di una visione diversa che avrebbe potuto mettere in discussione tutto l’Ordine sacerdotale che, dunque, deve essere visto come l’unico ente possibile per regolare i rapporti fra gli uomini e la

Divinità. Per ottenere ciò non restava che difendere, fino alle estreme conseguenze, l’attività del Sacerdote che, almeno liturgicamente, opera secondo modalità attinenti alla visione magica del per sé, con sé ed in sé ed, in tale visione, non si può porre in dubbio il suo potere di mediazione e di realizzazione del mistero ecclesiastico, poiché tutto avviene in virtù della Iniziazione Sacerdotale.

Tuttavia il sacerdozio, nella sua scala gerarchica, da Chierico ad Episcopo, rispecchia sostanzialmente il metodo di realizzare che la Tradizione assegna agli Adepti ed in tale visione i gradi previsti dall’Ordine di Melchisedech possono ben essere considerati come gradi di realizzazione e, quindi, di acquisizione di stati di coscienza. Ciò, naturalmente a condizione che i presupposti di vita che sono alla base della propedeutica iniziatica vengono rispettati. Forse per ciò prende forza e si afferma il sacerdozio monastico.

La presenza di questo particolare tipo di vita religiosa nel panorama del Cristianesimo primitivo e dei secoli successivi, a prescindere dalle motivazioni storiche che ne hanno determinato la nascita, assolve certamente il compito di conservare nel chiuso dei conventi, la Tradizione Iniziatica che la gerarchia ecclesiastica, presa com’era da sogni di affermazione e di potere, aveva ormai dimenticato.

Va detto, infatti, che la scelta della Chiesa, di operare sul piano sociale, sia pure nella corretta interpretazione delle esigenze dell’epoca, aveva finito per portare anche l’Ordine nella stessa sfera in cui i suoi adepti erano costretti ad operare.

Le ragioni storiche di tale scelta vanno ricercate nel vuoto amministrativo, conseguente alla caduta dell’impero romano, che la Chiesa, unico ente funzionante ed unico punto di riferimento delle smarrite popolazioni latine e delle ignoranti orde barbare, si era trovata costretta a riempire.

Si pensi, ad esempio, alla necessità dei Vescovi di amministrare la giustizia, in assenza delle ormai pregresse istituzioni romane.

I sacerdoti dovevano preoccuparsi dunque più delle necessità materiali del gregge affidato alle loro cure, piuttosto che perseguire la perfezione, e tale consuetudine ha finito per far dimenticare agli stessi iniziati ai misteri cristiani il contenuto tradizionale del messaggio di Cristo. La Buona Novella, dunque, finì per assumere, anche per il Sacerdote, un valore morale che, come per i fedeli, è il più evidente ed il più immediato alla lettura della “rivelazione”.

Ma con ciò la Scala dei Filosofi perde il suo valore di trasmissione di quelle metodiche, di quelle pratiche e di quelle tecniche che sono necessarie alla scoperta del Segreto, lo scopo dell’esistenza stessa dell’Ordine. Allora l’iniziazione diviene soltanto un fatto virtuale ed i gradi non corrispondono più ad acquisizioni di stati di coscienza. Allora la differenza fra coloro che, risvegliati, potevano utilmente conoscere e coloro cui la Natura non aveva ancora concesso la possibilità del risveglio viene meno; resta soltanto l’aspetto esteriore.

E così il riconoscimento di una raggiunta saggezza viene sostituito da una forma di virtualità che, entrata nell’abitudine e nella cultura dell’Occidente, viene poi necessariamente difesa dalla dottrina.

In altre parole, alla consapevolezza che il Cavaliere che conquista il Graal rende un servizio a tutta l’Umanità, si sostituisce, per forza di dottrina, il concetto che chi viene armato cavaliere, per ciò stesso, ha conquistato il Graal; la sua funzione, pertanto, non è solo necessaria, ma insostituibile, perché egli solo è in rapporto col Divino ed egli solo può essere il tramite che conduce alla reintegrazione.

In un contesto storico come sopra esaminato ed in una decadenza della Tradizione nel campo cristiano, come il periodo delle lotte per la Teocrazia ha evidenziato, si è sempre più sentita la necessità di conservare quella Tradizione che sembrava ormai scomparsa dall’Ordine e nulla sembrava meglio dei conventi, ove appunto esistevano quei presupposti di vita che sono alla base della propedeutica iniziatica, per tale conservazione.

In questo contesto conventuale si afferma l’Ordine di Francesco che, in quel momento, meglio rappresentava al popolo dei fedeli l’immagine del Cavaliere teso al solo bene dell’Umanità e non certamente dedito alla realizzazione del potere materiale.

La principale preoccupazione di Francesco fu proprio la ricostruzione dell’Ecclesia, come si avverte nel suo primo atto di ricostruire la chiesetta di San Damiano, come conservatrice dei contenuti più pregnanti della Tradizione che, nella Natura e nei suoi Segreti, intravede la realizzazione della Salvezza dell’Umanità.

Solo attraverso una continua ricerca interiore, dice la Tradizione, è possibile comprendere la Natura e carpirne i segreti; tuttavia la Natura non deve essere violentata, ma soltanto compresa e non è possibile comprenderla se non si affronta con l’unica forza che vince tutte le forze: l’Amore.

Ed il messaggio di Francesco è il messaggio evangelico che, però, viene riproposto in chiave strettamente interiorizzata e scevro da ogni sovrastruttura morale ed emotiva, oltre che da quelle tentazioni alla potenza terrena che ormai dilaniavano la Chiesa.

E’ la ricerca interiore che, secondo Francesco, deve portare all’acquisizione di quegli stati di coscienza che giustificano la saggezza ed il rispetto di essa. Il Vangelo dice: “Lascia tutto e seguimi” e Francesco si spoglia di tutto. La rinunzia ai beni terreni è l’esteriorizzazione della rinuncia alle passioni umane e, metaforicamente, si accomuna alla ricostruzione del Tempio di San Damiano che simboleggia la ricostruzione del Corpo della Chiesa che egli considera ormai diroccata.

Egli, forse, pensa che, senza sgomberare il campo della coscienza dai contenuti ordinari, non è possibile acquisire quegli stati di coscienza che la Scala Philosophorum prevede e, consapevole della virtualità della iniziazione sacerdotale, prescinde tout court dalla scala ufficiale della gerarchia ecclesiastica per sposare Madonna Povertà.

La via francescana è una via interiore in cui non vi è posto se non per una esperienza personale e, come tale, insostituibile; in questo senso deve probabilmente essere inteso il suo rifiuto di prendere i voti che, nel contesto dell’epoca, rappresentavano pur sempre l’assoggettamento ad un’esperienza mediata ed esteriore. Francesco e, con lui, tutto il nucleo dei suoi primi seguaci rifiutarono così la vita sacerdotale, nel modo come ormai si presentava, per perseguire un’esperienza individuale che, senza mediatori, si risolvesse in un colloquio solitario con la Divinità che è, dunque, vissuta senza pontefici ed intermediari di qualsiasi genere. In tal senso il francescanesimo non si comporta diversamente da quegli Ordini, per lo più di estrazione cavalleresca, che seguendo e proponendo ai propri adepti una visione esoterica dell’esperienza col Divino, sono stati rifiutati e, talora perseguitati dall’ Inquisizione, troppo spesso strumento della sete di affermazione e di ricchezze, sempre più vasta, dei potenti della terra.

Proprio su questo terreno si gioca la partita che Francesco ha iniziato con il rifiuto delle ricchezze terrene con la restaurazione della “Casa di Dio”.

Per Francesco, come per i suoi compagni, la Divinità è lo scopo di una esperienza da consumarsi in sè e per sè, senza bisogno di interpreti o di mediatori. Così il “nosce te ipsum” diviene, per il Francescanesimo delle origini, il cavallo di battaglia di tutta la regola francescana che è tradizionalmente metodo di realizzazione individuale, perché il messaggio cristiano è qui evidentemente inteso in chiave squisitamente esoterica.

Niente è estraneo all’uomo ed anche la Natura deve essere vissuta come atto d’Amore; di un Amore universale che trova la sua origine ed il suo fine nel Creatore, forza emanatrice da cui provengono ed a cui ritornano tutte le cose.

Questa visione estremamente interiorizzata della Divinità e della sua Manifestazione non poteva che portare Francesco verso una concezione tradizionale del Cristianesimo e, quindi, al rifiuto della gerarchia, in quanto soltanto formale espressione della vera Scala dei filosofi, e di conseguenza, del sacerdozio, sulla cui validità iniziatica, in senso tradizionale, Francesco evidentemente non crede, percependo come si presenta, relegato, cioè, ormai ad una funzione di organizzazione sociale, in una costante oscillazione fra la pietà e l’opportunità, talora a cercar di attenuare i patimenti della povera gente e talora a mantenerla nella sfera di obbedienza ai potenti, in ossequio alla struttura sociale dell’epoca. Ma, al di là della concezione pragmatica del sacerdozio, Francesco e, come lui, Frate Elia, la cui visione tipicamente ermetica non deve essere rimasta senza influenza nell’animo di Francesco, cercano un Dio senza mediatori, consapevoli che soltanto attraverso una forma di esperienza individuale e non comunicabile consiste il rapporto con il Divino.

L’anticipo temporale di tale ineluttabile tensione è cosa che viene riservata a pochi eletti che, per virtù evolutiva, hanno potuto svegliarsi dal sonno della materia per aprire gli occhi allo spirito ed al modo di conquistarlo.

In questo senso, scopo dell’organizzazione ecclesiastica era ormai quello di gettare il seme della Verità Rivelata al fine di stimolare il risveglio dei singoli o, comunque, di supportare l’Umanità sulla via che il Creatore, nella sua medesima manifestazione ha tracciato.

Ma l’illuminato non ha mai avuto necessità di tali stimoli e testimonia della vacuità di quelle forme di pseudo iniziazione che si propongono come una sorta di intercapedine necessaria fra l’Uomo e la sua salvezza.

In questa concezione, che trova riscontro nelle organizzazioni misteriche dei secoli precedenti e negli Ordini successivi, il gruppo di Frati che si raccoglie intorno a San Francesco non poteva ovviamente accettare che, per iniziare la costruzione del proprio Tempio Interiore, si dovesse ricorrere al virtuale potere di qualcuno che, magari, dormiva ancora il sonno del giusto.

E’ pur vero che, secondo il mito cavalleresco, il Cavaliere che estrae la spada dalla roccia diviene Re ed il suo regno sarà gratificato dalla saggezza; ma il cavaliere non ottiene ciò se non per virtù propria e non per virtù di qualunque altro uomo, anche se in possesso del metodo per giungere alla Pietra Fatale.

In una parola, non vi può essere nessuno che possa salvare qualcun altro che non voglia egli stesso salvarsi e per far ciò è necessario costruirsi il corpo adatto allo spazio che l’umanità andrà ad occupare nel primo gradino della scala che la deve portare alla riconquista dell’Eden, della Gerusalemme Celeste, di Avalon o di quel Regno che le religioni ed i Miti hanno promesso all’Uomo da sempre. In una tale visione, almeno come fanno supporre le propensioni ermetiche di Francesco e di Frate Elia, sarebbe stato incoerente accettare il sacerdozio, rinunziando così al messaggio non virtuale trasmesso con tale atto agli uomini.

In un contesto storico-sociale come quello in cui si sono trovati ad operare, Francesco ed i suoi Frati non potevano certo parlare della loro convinzione nella virtualità dell’Iniziazione Cristiana giustificandola con una scelta di campo, fatta tanti secoli prima, d’altronde perfettamente coerente con i tempi dell’epoca; si sono limitati, così, ad accettare la situazione, nei limiti in cui non li impegnava sul piano della incoerenza e della contraddizione, nella consapevolezza della realtà evolutiva in cui tutto si muove, riconoscendo l’utilità dei ruoli, ed anzi favorendone lo sviluppo.

Non rinunziando al messaggio in chiave reale per coloro che dovevano intendere.

La rinunzia all’unzione come, del resto, l’introduzione della figura di Madonna Povertà, che rappresentano, in contrasto con la virtualità e la ricerca delle ricchezze, nel panorama religioso dell’epoca, quasi certamente, la creazione di un nuovo sacerdozio di tipo laico, come testimoniano tutti quei movimenti cui il francescanesimo ha dato origine, sono messaggi che non possono essere semplicisticamente liquidati con il ricorso al concetto di umiltà; così come l’indirizzo teologico, dato da Frate Elia, all’epoca della sua primazia nell’Ordine Francescano, può ben essere riguardato come misura della consapevolezza del

ruolo della gerarchia ecclesiastica in un contesto di enorme diffusione dell’Ordine stesso che, per le proporzioni assunte, escludeva ormai la comprensione del messaggio ermetico se non nella sfera individuale di pochi eletti che, nella pratica della Regola stretta, potevano effettivamente risvegliarsi alla realtà della Natura e della sua Arte.

Quello che abbiamo inteso dire è soltanto che il Francescanesimo è l’interpretazione, in chiave tradizionale, del Cristianesimo o, se si vuole, il conservatore della Tradizione nella forma religiosa e, se così è, in virtù dell’ormai comprovata unicità della Tradizione, vi si troveranno sempre contenuti identici a tutte le altre forme in cui la Tradizione si è manifestata.

La concezione sciamanica della Natura, ad esempio, che propone una vita in simbiosi con essa, in modo da porsi al centro della Creazione, è certamente simile alla concezione che della Natura propone San Francesco; ma ciò non fa del Serafico uno Sciamano, così come non consente di identificare lo Sciamanesimo con l’Ordine dei Minori.

La Verità è necessariamente una sola ed è, quindi, riconoscibile in tutte quelle metodiche che la perseguono; è dunque comprensibile che forme diverse abbiano contenuti uguali, quando il contenuto è lo scopo stesso della Grande Ricerca alla quale partecipano tutti quegli esseri che, via via, aprono gli occhi alla vera vita. Su questo sentiero tutti gli Adepti sono affratellati, per quanto grandi siano le differenze culturali, morali o psicologiche che li dividono. Essi hanno sempre avuto, in fondo, un linguaggio comune che, in qualche maniera, richiama sempre lo scopo ed i metodi, sempre gli stessi, della Grande Ricerca. E così, dalla profondità del passato fino alle più lontane Ere del futuro, vi sono stati, vi sono e vi saranno sempre, gli oscuri Operai dell’Arte, gli insospettabili uomini della Pietra, gli sconosciuti campioni dell’Umanità che, accomunati dalla divisa “Non nobis Domine, non nobis”, si gettano nella battaglia per la riconquista della Gerusalemme Celeste, dove debbono un giorno trovare posto tutti gli Uomini, finalmente riconsegnati al loro stato primigenio di Figli della Luce.

Chi studia gli inizi del Francescanesimo e la vita del suo fondatore, si imbatte in alcuni elementi che possono a prima vista sembrare contraddittori e che richiedono un’approfondita riflessione sulla situazione delle comunità monastiche del Medioevo, al fine di essere risolti.

Tale ad esempio l’atteggiamento di Francesco nei confronti del costruire; da un lato ha impedito l’edificazione di case e conventi, dall’altro ha promosso l’innalzamento di nuove chiese e cappelle. Perciò, era sfavorevole o favorevole all’attività edilizia?

Ed in quale misura le vedute di Francesco furono accolte e rispettate, nell’Ordine che egli istituì?

Prediligeva certi tipi edilizi, oppure no?

Analoghe domande concernono i problemi del lavoro: fu favorevole, oppure no, all’esercizio di attività, almeno a livello manuale, da parte dei frati?

Nel corso della sua azione spirituale, infatti, egli si attenne ad un’assoluta, totale povertà, vivendo esclusivamente di elemosina; dall’altro lato, però, risulta che egli si prestò volentieri ad aiutare le persone nel loro lavoro, con una particolare preferenza per il mestiere del muratore, nel quale sembra aver avuto nozioni superiori a quelle di un semplice manovale. Un altro problema che ancora attende soluzione è quello del perché di fronte all’umiltà, povertà, nudità, delle prime chiesine francescane si presenti la grandiosità, lo sfarzo, la profusione esornativa del Tempio di Assisi, iniziato nel 1228, appena due anni dopo la morte del santo, avvenuta nel 1226: dove era finita la semplicità francescana?

Ma, prima di azzardare qualche risposta alle numerose domande, occorre accennare brevemente ad alcuni movimenti ereticali che precedettero il Francescanesimo non soltanto sotto il profilo temporale, ma anche sotto l’aspetto pratico, qualitativo dell’azione nel mondo. Siffatti movimenti trovarono la loro motivazione soprattutto nella protesta verso il lusso e la licenza dei costumi del clero; in tal senso le eresie del XII e XIII secolo furono ben diverse da quelle dei primi secoli del Cristianesimo, quando le dispute si coagulavano intorno ad astratte sottigliezze metafisiche: qui invece, più che di eresia si dovrebbe parlare di ribellione contro il privilegio. Peraltro occorre mettersi anche dalla parte dei preti e riconoscere che il clero non vedeva il motivo di rifiutare allettanti lasciti e donazioni, beni che però ne accrescevano le ricchezze; di modo che, tirate le somme, era difficile conservare un costante stato di povertà e conciliarlo con l’opulenza che, oltre tutto, non costava alla chiesa la minima fatica, poiché era frutto di donativi.

Si deve inoltre considerare che il Medioevo non risulta essere stato un momento felice per la economia delle popolazioni italiche, salvo che non lo si voglia paragonare alla miseria assoluta di particolari momenti, come quelli relativi al dominio longobardo, nel qual caso alcuni periodi del travagliato millennio possono sembrare accettabili di modo che, se nella scelta della maniera di vivere si optava per il chiostro anziché per la famiglia, tutto sommato si risolveva il problema del pane quotidiano.

L’opportunità di soddisfare le necessità più immediate, senza eccessivo dispendio di fatica e quindi al riparo da rapine e prepotenze, attraeva in non lieve misura ed induceva ad abbracciare la vita monastica, godendo e conservando le ricchezze di cui il convento poteva disporre: motivi morali, come ad esempio il timore di passare per dilapidatori delle sostanze della comunità; potevano determinare gli abati ad amministrare con oculatezza il patrimonio loro affidato. Cosicché, riassumendo, forse il comportamento dei religiosi, in generale, era meno dissoluto di quanto le memorie di quelle oscure epoche ci vogliono far credere: saremmo piuttosto indotti a pensare che lo stato di miseria diffusa accentuasse il distacco fra chi poteva permettersi un livello di vita appena accettabile e chi invece era costretto ad una difficile sussistenza; da ciò derivava il diffuso senso di rancore e di risentimento nei confronti dei monaci, i quali invece beneficiavano di rendite tali da assicurare loro un modesto, ma abbondante e soprattutto sicuro, pasto quotidiano.

Ad ogni modo, tanto che si sia trattato dell’accennato sentimento di rancore, oppure che sia stata la progressiva diffusione del contenuto dei Vangeli, oppure tutte e due le cose insieme, fatto è che larghi strati di popolo assunsero un deciso atteggiamento di contestazione e di riprovazione nei confronti del clero; anzi, è proprio in questo tempo ed in questo clima che vanno cercati i germogli della futura Riforma protestante.

In contrapposizione alle ricchezze dei monasteri fu riscoperta la povertà di Gesù Cristo, furono rammentate le parole del Maestro invitanti i propri discepoli a spogliarsi di ogni avere, compresi moglie e figli, ed a seguirlo in una vita errabonda, senza fissa dimora, bevendo a fonti e ruscelli, sfamandosi con il pane offerto da persone caritatevoli.

Tale fu la visione che in quelle epoche si ebbe della vita di Gesù Cristo: eppure una più attenta lettura del Vangelo avrebbe fornito una alquanto diversa valutazione. Vedasi ad esempio il passo di Matteo, (IX,10-15) dove è espressamente attestato che i discepoli di Gesù non digiunavano ed in ciò si distinguevano da altre aggregazioni di zelatori; si pensi poi ai miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci, quando il divino Maestro, lungi dal compiacersi della fame della folla, cerca invece di ovviarla, finché il cibo addirittura avanza; si pensi al passo di Luca (VII, 31-40) dove Gesù dice di se stesso che “mangia e beve”; ancora si possono citare le nozze di Caana e parecchie altre occasioni, in cui Egli non rifiutò di partecipare a pubblici banchetti.

Si può infine rinviare a Luca (VIII, 1-3) dove è detto che “molte donne” assistevano Gesù “con le loro sostanze”. Tutto ciò porta a concludere che la vita del Nazareno, nei tre anni in cui durò la sua predicazione, non fu accompagnata da un regime di continue privazioni, penitenze ed umiliazioni, di modo che appare arbitrario l’atteggiamento di numerosi riformatori del Medioevo, i quali credettero di imitare Cristo infliggendosi ogni sorta di stenti e di punizioni, e vivendo una vita abietta. Ma non è questa la sede per discutere problemi del genere. I movimenti ereticali che precedettero il Francescanesimo furono i Catari e le sette pauperistiche; soprattutto queste ultime possono considerarsi dirette precedenti dell’Ordine assisiate. In particolare interessano i Valdesi, o “poveri di Lione”, i quali offrono aspetti molto vicini al movimento monastico umbro. Paul Sabatier ritiene molto probabile che Pietro Bernardone abbia messo al corrente suo figlio dell’esistenza dei “poveri di Lione” e che gliene abbia partecipato il pensiero e l’azione; ciò che successivamente può aver fornito spunti in occasione della stesura delle varie “Regulae” dell’Ordine. Ad ogni modo resta il fatto che i Francescani del primo momento ebbero come ideale quello di seguire Cristo nella più

radicale miseria, in un ambiente di ascesi e di penitenza, e nel rifiuto di qualsiasi fissa dimora, per recarsi invece di luogo in luogo a predicare la necessità di ravvedersi dei propri peccati: invero, si può notare che simile maniera di vivere è più consona all’ideale di S. Giovanni Battista e dei suoi discepoli che a quello di Cristo.

Il rifiuto di una fissa dimora contrastava in particolar modo con qualsiasi velleità fabbricativa di monasteri o case; infatti nei primi tempi i Francescani accettavano semplicemente l’ospitalità di persone caritatevoli e mangiavano ciò che gli veniva posto davanti, ma non potevano assolutamente accettare danaro.

Tuttavia, col tempo simile situazione si rivelò insostenibile; un fatto che dovette non poco contribuire a mutare l’atteggiamento nei confronti dei beni materiali fu la donazione all’Ordine del monte della Verna, fatta dal Conte Orlando dei Cattani a San Francesco nel 1213. Probabilmente quest’ultimo non si rese conto del fatto che il dono costituiva un pericoloso precedente nei confronti di eventuali altre donazioni e che, più in generale, ledeva il principio dello spirito di povertà di cui era condizionata la vita dell’Ordine. Altra donazione, almeno di fatto se non di diritto, fu quella della Porziuncola concessa dall’Abate benedettino Maccabeo sempre a S. Francesco; essa comprendeva la famosa chiesina ed alcune casette. Ben presto, specie dopo la morte del santo, le donazioni ed i lasciti si infittirono, ponendo l’Ordine in grave imbarazzo: da un lato, rifiutando i donativi, si offendeva la sensibilità dei fedeli, dall’altro lato l’accettazione dei donativi stessi era apportatrice di ricchezza, contro l’ideale pauperistico e contro la Regola. Anche Francesco, col tempo, dovette moderare la propria intransigenza verso le fisse dimore: infatti fu concessa la possibilità di soggiornare in eremi o romitori, od anche conventi, a condizione che i frati non fossero più di quattro e che non considerassero mai le costruzioni di loro proprietà, astenendosi dall’avanzare su di esse qualsiasi diritto.

Ma veniamo alla persona del Fondatore. Risulta che egli, per non poco tempo, si sia cimentato in un particolare mestiere: quello del muratore. Infatti, a seguito della vocazione maturata nel corso di ripetuti soggiorni presso la Chiesa di S. Damiano, non lontano da Assisi, egli fra il 1206 e la primavera del 1208 restaurò, con le proprie mani, l’edificio che minacciava di andare in rovina. Quasi sicuramente le riparazioni riguardarono il tetto e la volta; l’edificio risulta seguire gli stilemi dell’architettura cistercense: è un vano rettangolare molto lungo coperto da una volta a schiena d’asino, concluso da un’abside semicircolare.

Simile tipo di chiesa si diffuse in Italia circa a partire dalla metà del secolo XII; ma proprio in Umbria sembra essere stato preceduto da un più antico, analogo schema da collegare al prototipo del tempietto del Clitunno, anch’esso costituito da un vano rettangolare coperto da volta a botte semicircolare, con abside in fondo; sembra che lo schema del Clitunno abbia progressivamente ridotto il pronao ad alcuni rozzi elementi coperti da un tetto a capanna, oppure che l’abbia del tutto perduto, ma che abbia conservato la volta a botte sulla navata.

E’ più probabile che le correnti francesi cistercensi si siano innestate sulle tradizioni locali, esprimendo il risultato edilizio costituito dal tipo di S. Damiano, cui si rifanno anche la Porziuncola, la Chiesa di S. Giacomo al cimitero di Assisi, le Abbazie di Sitria e di Fonte Avellana, la chiesa di S. Cassiano presso Fabriano, ed altre, sparse un po’ in tutta Italia, con tendenza a localizzarsi lungo l’Appennino. Come appare dalla posteriore edilizia, è evidente che il tipo di S. Damiano fu quello preferito dal Santo per ulteriori identiche realizzazioni: ad esso infatti si rifece quando progettò la chiesina della Verna.

Intanto, dopo S. Damiano, egli continuava nella riparazione di santuari minacciati di rovina nel territorio di Assisi; i lavori dovevano sempre riguardare il cattivo stato dei tetti e delle volte. Non passò molto tempo che Francesco ebbe intorno a sé un piccolo gruppo di compagni disposti a seguirlo fino in fondo: le cronache informano che essi furono dodici, con evidente richiamo al numero degli Apostoli.

Tra la fine del 1210 e gli inizi del 1211 essi per breve tempo soggiornarono nei tuguri di Rivotorto: trattandosi di un rifugio già esistente dove i frati si sistemarono alla meglio.

Poiché da qui furono scacciati, essi ottennero dal già anonimo Abate Maccabeo l’uso a vita della località di S. Maria degli Angeli, o Porziuncola della proprietà ivi posseduta dai benedettini. Oltre la famosa chiesina, vi erano alcune costruzioni utilizzate per le più impellenti necessità della comunità, come ad esempio un’infermeria, che fu sistemata entro una casetta sorgente dietro l’abside della chiesina; un vano di tale casetta fu sistemato a cappella, poiché nel Medioevo ogni ospedale doveva includere un luogo di preghiera: essa è quella detta del “Transito”, poiché li dentro spirò Francesco nel 1226.

C’è da aggiungere che la muratura di tale cappella è quella originale. Essa affiora presso la porta laterale dell’edificio, dove è stata sempre visibile sotto il più tardo rivestimento in pietra da taglio e sopra la più antica cortina di mattoni di modo che i recenti saggi non hanno condotto che al reperimento di ulteriori tratti della suddetta cortina di mattoni, la quale è stata sempre ben visibile.

Nel 1220 il Santo rinunciò al generalato; il nuovo Ministro Pietro Cattani fece, dietro l’abside della Porziuncola, un piccolo coro o luogo di preghiera comune: era a pianta pentagonale e se ne sono trovate le tracce in fondazione. Ancor più indietro si innalzava una spaziosa casa a due piani, fatta costruire dal Comune di Assisi e donata ai monaci sempre nel 1220. Poiché Francesco si era allontanato per qualche tempo da S. Maria degli Angeli, quando ritornò e vide la nuova costruzione, si infuriò terribilmente e cominciò a demolirla con le proprie mani: ci volle del bello e del buono per calmarlo e fargli accettare il dono, cui acconsentì, purché il fabbricato servisse soltanto per l’ospitalità in occasione di feste, pellegrinaggi, Capitoli Generali et similia. Anche di questa costruzione sono state trovate le fondamenta, presso l’abside dell’attuale basilica.

I frati abitavano in capanne di legno e di frasche; i primi locali in muratura del convento, cominciarono ad essere costruiti verso il 1230, quattro anni dopo la morte del Santo: essi sono localizzabili presso il pianoterra del moderno monastero. Sembra abbastanza chiaro, dalle succitate vicende, che Francesco vedeva di buon occhio le nuove costruzioni religiose, sempre però a condizione che si mantenessero entro i limiti della decorosa modestia, mentre non tollerava assolutamente che i frati abitassero in case vere e proprie e, peggio ancora, che ne fossero proprietari; il loro lavoro a S. Maria degli Angeli doveva a preferenza consistere nel prendersi cura degli ammalati dei vicini lebbrosari di S. Lazzaro e di S. Maria Maddalena, rispettivamente degli uomini e delle donne, situati a poca distanza dalla Porziuncola.

Più in generale i Francescani potevano accettare lavori subordinati e manuali, cui tuttavia, col tempo, fu necessario rinunciare poiché quelli che entravano nelle famiglie come domestici “erano trattati come ospiti d’onore”.

Ritornando a Francesco, le sue giovanili esperienze nel campo edilizio gli conferirono una notevole abilità in tema architettonico e progettistico, come emerge dal fatto che, durante il soggiorno alla Verna, ebbe una visione della Vergine la quale gli impose di costruire una chiesa in suo onore, dettandone perfino le dimensioni. L’edificio innalzato è del solito tipo a navata unica coperta da volta a sesto acuto e misura: 9x5,15x7 metri di altezza.

Tra il 1250 ed il 1260 esso fu prolungato verso l’ingresso e raddoppiato come volume. Anche alla Verna si coglie lo stesso assetto conventuale di S. Maria degli Angeli, poiché i monaci abitavano in capanne di argilla e di rami intrecciati: vale a dire, la casa di Dio poteva essere un solido fabbricato in muratura, quella degli uomini,

invece, doveva ridursi ad un tugurio o meglio ad una grotta, proprio come quella dove il Santo aveva appunto sistemato il proprio ricetto. Altre cappelle del complesso monastico sono di realizzazione alquanto tarda, come del resto il Convento, iniziato dopo la morte di Francesco. Una tradizione che sembra autentica è quella narrante come egli sia capitato in località S. Paolo presso Borgo S. Sepolcro e che ivi abbia diretto alcuni muratori impacciati intorno alla collocazione dell’architrave della porta di una chiesa, secondo il metodo più acconcio per condurre l’opera a buon fine.

In sostanza, mettendo insieme gli episodi sparsi qua e la nella vita di Francesco, sembra di poter affermare che egli disponesse di nozioni edilizie alquanto superiori a quelle di un comune manovale e che fosse almeno a livello di un buon capomastro, che dovesse non soltanto limitarsi ad esercitare un ruolo esecutivo, ma anche ad ideare e condurre a termine qualche semplice progetto, a dirigere una squadra di operai, a procurarsi e preparare il materiale da costruzione; cioè a saper innalzare un ponteggio, a conoscere il modo di impastare la calce, a tagliare la pietra ed a porla in opera seguendo il filo a piombo, ad installare i conci di una volta, a tagliare il legno per costruire le capriate del tetto di copertura.

Non vogliamo prolungare ulteriormente la nostra trattazione; perciò accenneremo brevemente alle più tarde vicende edilizie dell’Ordine. Sembra che l’anno separante due diversi atteggiamenti nei confronti dell’edilizia più propriamente conventuale sia il 1220. Prima di quest’anno i frati disposero soltanto di eremi del tipo della Verna, delle Carceri, della Porziuncola: tanto è vero che, sempre in tale anno, fu costruita in Bologna, una casa per i francescani; e puntualmente Francesco, come per la casa donategli dal Comune di Assisi, dietro la Porziuncola, ne ordinò l’immediata demolizione. Ci volle il buon senso del Cardinale Ugolino per convincerlo che l’edificio non apparteneva all’Ordine, poiché egli stesso l’aveva dichiarato di sua proprietà, mediante atto pubblico: a tale condizione Francesco ne permise l’uso. Ma a partire dal 1221, quando vennero istituiti i Ministri, che per logica d’ufficio dovevano disporre di un luogo di residenza, si cominciò a cedere sul divieto di possedere immobili; d’altro canto il papato, con bolla del 22 marzo 1222, aveva incoraggiato l’Ordine a possedere almeno chiese, e Francesco su questo punto era abbastanza malleabile.

In breve, specie in luoghi lontani dall’Italia, i frati iniziarono ad accettare dono di immobili; Giordano da Giano, uno dei primi seguaci del Santo, recatosi per la predicazione in Erfurt, chiedeva: “Basta che ci costruiate una casa vicino all’acqua, in modo che possiamo entrarci a lavare i piedi”.

Verso il 1224 i frati costruirono a Parigi, sul posto ove è ora il giardino del Lussemburgo, un vasto convento; nel 1230 ricevettero dai Benedettini di S. Germain des Près un certo numero di case; infine S. Luigi li installò nel monastero di Cordiglieri.

Abbiamo detto che il convento della Porziuncola fu iniziato a costruire verso il 1230; analogamente nel 1228, due anni dopo la morte di Francesco, Frate Elia Buonbarone iniziò l’innalzamento della grande Chiesa assisiate dedicata al fondatore dell’Ordine. Sembra evidente, quindi, che sia la necessità correnti sia un certo rilassamento, intervenuto nella tensione spirituale dei monaci dopo la morte di Francesco, abbiano indotto a moderare i rigidi divieti espressi dal santo e ribaditi nel proprio testamento; qui egli prescrisse di guardarsi dall’accettare chiese, abitazioni e costruzioni non convenienti allo stato di santa povertà e di usare gli immobili sempre come se si fosse ospiti, o stranieri o pellegrini. Ed aggiunse:

“Io con le mie mani lavoravo, come voglio lavorare, e voglio risolutamente che lavorino anche tutti gli altri frati, di onesto lavoro. Quelli che non sanno, imparino, non per avidità di ricevere il prezzo del loro lavoro, ma per dare buon esempio a cacciare l’ozio. E quando poi non ci venisse dato il compenso del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta.”

Come fugace commento a tali parole, verso le quali esprimiamo la più profonda riverenza e considerazione, ci sembra però di non poterne condividere l’ultima frase, basata sui presupposti della povertà di Cristo e del provvidenzialismo risolutore dei bisogni umani: a nostro giudizio non è stata ancora raggiunta la maturità del concetto di “Lavoro”, che è riferito soltanto ad un generico piano etico, mentre difetta la consapevolezza del suo valore spirituale, in senso hegeliano, come maturazione interiore ed acquisizione di stadi più elevati di autocoscienza cioè

come mezzo di conoscenza; il lato pratico, che è la concretizzazione del valore, l’oggettivazione dell’atto morale compiuto col lavoro, viene poi addirittura rifiutato. Eppure il negare la giusta mercede all’operaio è uno dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: perciò noi crediamo che le parole di Francesco vadano valutate nel contesto storico in cui egli visse, intessuto di forti spinte verso la povertà, come reazione al lusso degli Ordini religiosi; e riteniamo non sufficientemente riflettuta l’accettazione del lavoro soltanto come mezzo per dare il buon esempio e cacciare l’ozio; crediamo invece che il lavoro rappresenti un itinerario di crescente realizzazione interiore, che non conosce termine: ma perché simile concetto sia riconosciuto occorrerà attendere tempi a noi più prossimi.

Colloquio quarto

(ovvero della ricerca dei segni sulle pietre)

 

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Recensione Breve invito a Comisso

Di Marius

 

E' dell'invenzione poetica riconnettere le sempre sparse membra di Osiride al vincolo di un atto possibile, e però non scevro d'illusione. Apprezzato lirico, da Onofri (e oggi, come tale,

scarsamente riesumato) Giovanni Comisso e la poesia s'intesero appena, secondo un'ispirazione riccamente rimbaldiana, all'alba screziata della di lui giovinezza, senza più ritrovarsi. Difatti, è in prosa d'impronta erotico-narrativa o di viaggio-memoria (e l'una e l'altre assieme, talora), negli anni suoi più maturi a prender forma l'indole propria, leggera ed egotica ma accattivante dell'Autore, da poco riproposta in ricco e scelto tomo (comprensivo, peraltro, del primevo dato poetico) a cura di Rinaldo Damiani con l'ausilio di Nico Naldini (Meridiani Mondadori, ? 49,90).

Dopo la collana eponima longanesiana, già da anni in via d'esaurimento, si attendeva un ampio ritorno editoriale che pur fosse approdo criticamente valido, chiarificatore su Comisso: null'altro titolo a parlare di lui m'è concesso se non pel gusto esaltato, inebriato, con cui da settimane approdo e riapprodo alla scoperta de Le mie stagioni, il cui testo, rifinito nella edizione '63 con scelte d'altri libri di memoria, dal '41 escogito Comisso nel torno di un quinquennio, durante e dopo guerra; e resta indubbia vetta di tutta l'opera dello scrittore trevigiano. Qui, al bilancio de' giorni, di fronte alla fallacia del tempo Comisso depone in parte la propria verità (e vanità) istintuale; facendosi alquanto orfano e giovandosene, col correr dei capitoli e degli anni, della primeva e meramente biologica sua identità. Le mie stagioni riconfessano un Comisso più attento che non, poniamo, il romanzato, libertino Amori d'Oriente (seminato anch'esso di spunti autobiografici) o il domestico La mia casa di campagna; e volgono all'elegia lucidissima dei suoi crepuscoli senza rinunzia a ricordare non rinnegando: fiero patto sulle spoglie d'un naufragio; faustismo sanguigno, dopotutto, questo non darsi per vinto dopo l'immisericordia dei giorni, per chi sì lungamente si volle corpo e nulla più.

Ecco, per ogni libro il vorticoso tipo d'uomo di Comisso - un uomo, del resto,

socialmente dichiarato "morto" ne "l'epoca orrenda" sorta dopo il '45 - è quello immediato e quasi bestiale a tratti ma corretto - meno da virtù di studi che non per intrinseca indole anfibia - da fine sensibilità estetizzante, premuroso di delicatezze amene, secondo un filo - scevro invero di mera coloritura dannunziana - che poi in lui legittimamente riconnette la maturità al tempo del primevo suo trapasso alla giovinezza ancora un po' adolescenziata, cui si bagnò - fin nel tardo sorriso d'anni - l'aura vitale di Comisso.

E in quel tempo di gioventù prossimo già alla Grande Guerra, all'impresa di Fiume, che lo videro partecipi, poteva dire: "Io ho un desiderio ardente di conoscere le donne e gli uomini fiorenti, le giovani e i giovani adolescenti, di conoscerli nudi con intenti estetici voluttuosissimi"; "le cose belle e nuove si accarezzano sempre e si proteggono: non vedi gli adolescenti come tengono sempre le mani in tasca, e le giovani donne come nel correre si tengono con ambo le mani il petto sballonzolante."; "la mia amante nella sera m'ha dato una rosa, un bacio anche e nulla più. l'ho lasciata allora. Errai per la città, desideroso di amare follemente giunsi a una calle angusta. Era un caldo soffocante: una donna uscì da una porta, mi venne incontro, mi prese per le mani, mi abbracciò e mi strinse, e mi condusse entro la sua casa. Io lasciavo fare. Mi gettò su di un letto, mi abbracciò guardandomi con gli occhi fissi, mi baciò, era sudata in volto e il suo alito sapeva di vino. Mi divincolai, ella mi riprese, mi distese supino (.) mi guardò ancora con gli occhi fissi; poi si siede a ridere forte. Mi alzai, mi sciolsi dalle sue braccia, feci per fuggire; ella mi trattenne; mi prese la rosa che la mia amante mi aveva donato, si alzò le sottane e se la impiantò nella fica e si agitò oscena; poi la gettò per terra. Io,

barcollando triste all'insulto recato dolce fanciulla mia, fuggii via".

Muove, e vita è opera in Comisso, la fanciullesca estroversione immatura, radicalmente immatura, d'intelligenza, e di pensiero. E possiamo perdonargli questa fatale ingenuità, di libro in libro, di rigo in rigo, per quel senso di grazia odorosa che, dono oggi vie più peregrino, innanzi ai suoi lavori ci abbandona, come presso antico novelliere, al trascorrere giocoso e immemore del tempo.

 

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RIFLESSIONI E CRITICHE

Socrate contro i sofisti e contro noi

Di Antonino Cucinotta

 

Socrate visse nella seconda metà del secolo V a.C., momento particolarmente difficile per la città di Atene, periodo in cui andavano svanendo i sogni di gloria e le ambizioni di egemonia della stessa. La situazione politico-sociale della Città non è certamente la più corrispondente a quello che è il carattere del filosofo, al suo modo di pensare, ai suoi sentimenti e alle sue aspirazioni come ci testimoniano i suoi discepoli e anche coloro che non compresero il suo pensiero e quindi non lo condivisero. Nella seconda metà del secolo V a.C., Atene ha già perduto la sua egemonia politica in Grecia; le sue antiche istituzioni politiche sono crollate e all'aristocrazia si è sostituita la democrazia; con esse sono anche crollate le basi della vita etica che avevano fatto la gloria della Città e di tutta la Grecia e che avevano portato i suoi figli a combattere e a vincere a Maratona e a Salamina contro i persiani invasori.

Nel nuovo clima, quei fatti gloriosi non sono altro che un pallido ricordo che non esercita più alcuna influenza sulle nuove generazioni, che non scuote più i nuovi ateniesi di fronte al miserando spettacolo della Patria in rovina. La religione, le leggi, la Patria sono diventati semplici nomi, ombre vane senza consistenza; la virtù si identifica con il vantaggio e l’utile individuale che sfocia nella retorica, nell'arte della persuasione, nella presunzione, nell’egoismo, nell'abbassamento, cioè, del bene universale e spirituale al bene particolare e materiale. L'individuo, cioè, si proietta fuori di sé; cerca fuori di sé, nelle cose transeunti, la propria felicità, ormai fatta consistere principalmente nel pieno soddisfacimento delle proprie ambizioni, dei propri istinti e inclinazioni particolari, nel senso della morale tradizionale che aveva fatto credere nell'origine divina della religione, delle istituzioni politiche, delle leggi e dei costumi greci, si è ormai affievolito e la scienza morale, ottenebrata e quasi soppressa, non fa più distinguere il divino dal profano, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Ciò che ormai vale è la legge del più forte che ha il diritto naturale di opprimere il più debole; ciò a cui bisogna aspirare, è la piena affermazione dell'individuo a cui lice pervenire con qualunque mezzo e a qualunque costo.

La cultura, efficace mezzo di diffusione delle idee, fino allora patrimonio di pochi privilegiati, si diffonde in estensione e porta alla diffusione e all'affermazione dei nuovi principi e delle nuove aspirazioni. Un generale rinnovamento pervade l’animo degli ateniesi che, dimentichi delle loro tradizioni, ormai sordi al richiamo della coscienza, sovvertiti i valori umani, si danno alla frequenza assai costosa delle lezioni di quei maestri di sapienza che furono i sofisti, promettitori di ogni felicità e di ogni benessere. E' questo, infatti, il clima più adatto alla rapida affermazione dei sofisti e, tralasciando di esaminare se essi ne furono causa, come vuole Tucidide, o che ne furono effetto come vuole parte della critica moderna, sta di fatto che, lungi dal disapprovare tale stato di cose, e dal cercare di porvi un salutare rimedio, ne favorirono la china, determinando 1'affermazione, peraltro non disinteressata, dei nuovi principi.

Protagora, il maggiore rappresentante della sofistica, afferma "essere l’uomo misura di tutte le cose" trasferendo così la ricerca dalla natura all’uomo, dall’inorganico agli esseri viventi artefici di quanto di umano si attua nel mondo. Conoscendo lo svolgimento del precedente pensiero filosofico, è facile scorgere nel principio protagoreo non solo un volgere l'attenzione speculativa verso e sull' uomo, ma anche un'affermazione di libertà e di autonomia dello stesso uomo che significa rinnegamento di ogni verità prestabilita e dogmaticamente accettata e ricerca personale della verità, acquisita attraverso la personale esperienza. Non si può negare che tale principio, ponendo l’uomo al centro dell'attività, segni una svolta decisiva nello svolgimento del pensiero filosofico che sempre in seguito si riferirà ad esso per approvarlo o per negarlo, per sostenerlo o per contestarlo. Noi non disconosciamo il valore di tale affermazione e il suo aspetto positivo, ma non possiamo dimenticare che l’uomo di cui ci parla Protagora, è l’uomo sensoriale e i sensi, sappiamo tutti, non possono essere per la loro particolarità e mutevolezza, fonte di certezza e di stabilità, di coerenza e di etica solidità. Con tale affermazione, è chiaro che Protagora riafferma la validità del "panta rei" di Eraclito: coerentemente con il suo presupposto filosofico, porta all’estremo soggettivismo relativistico e allo scetticismo, per cui ogni cosa è così come a ciascuno i sensi la fanno apparire. Il regime democratico, istituitesi in Atene, creava ai giovani allettanti miraggi e nuove prospettive di successo e di affermazioni individuali, dava loro la possibilità di accedere alle più alte cariche dello Stato e di poter soddisfare le diverse ambizioni individuali e utilitaristiche. Era, però, necessario vincere i competitori; coloro, cioè, che nutrivano le medesime aspirazioni.

Era una battaglia fatta di parole, di sottigliezze logiche, di inganni, di adulazioni e di pure apparenze, intese a persuadere i cittadini e ad accaparrarsene il favore. Era quindi necessario possedere una convincente oratoria e i sofisti dichiaravano di essere maestri nell'insegnamento di tale arte, avendo la capacità di fare apparire vero il falso, giusto l’ingiusto, bene il male. E' naturale che una tale teoria, rivolta al soddisfacimento di esigenze prettamente individualistiche ed egoistiche, deve necessariamente prescindere dai valori spirituali e universali e dalla morale che non può trovare la propria validità in prassi empiristiche ed opportunistiche.

Era questa la situazione spirituale, sociale e ambientale al momento in cui Socrate, a vent' anni, abbandonata la bottega del padre, come spinto da una irresistibile forza interiore, iniziò la sua attività di cittadino e di filosofo. Lo scontro era inevitabile poiché Socrate, coerentemente con il suo carattere e con la missione che si era prefissa, non poteva non colpire e non stigmatizzare una condotta di vita tutta proiettata all'esterno.

Egli intendeva richiamare i suoi concittadini all'interiorità; ad interrogare e ascoltare la propria coscienza, a ricercare l’inestimabile bene della felicità non nelle cose mondane e transeunti, ma in sé stessi, nel possesso di beni spirituali nei quali soltanto può consistere la nostra vera felicità umana. Egli conduce la sua opera non senza acredine e sarcasmo, ma senza risentimenti, bonariamente e pacatamente. Gironzola per le strade, si ferma al mercato, entra nelle botteghe, attacca discorso con chi gli capita prima: uomo o donna, ricco o povero, colto o ignorante, sofista o cittadino comune indistintamente.

 

Inizia sempre il suo dialogare con modestia, quasi con umiltà. Egli sa di non sapere e vuole apprendere qualcosa da chi si vanta di sapere. Ma il "ti esti" incalzante ci fa assistere ad un crescendo irresistibile della personalità di Socrate che finisce con il capovolgere le posizioni iniziali. Egli, ignorante, diviene maestro senza che tale nuova posizione alteri il suo comportamento bonario e comprensivo; i suoi interlocutori, prima irritati e violenti, ma poi impotenti a sostenere l'impeto, devono riconoscere la propria ignoranza. Socrate non vuole umiliare i suoi avversari, ma vuole far penetrare nelle loro menti la luce rischiaratrice del vero sapere, 1'amore per la virtù e la rettitudine; far capire loro l'inutilità della boria ingannatrice; egli desidera educare i suoi concittadini ad una condotta di vita non corrotta e fondata su quei principi e sentimenti che in passato avevano onorato e fatto grande la Patria.

Come abbiamo detto, Socrate non risparmiava le sue critiche a nessuno e per i suoi concittadini che aspiravano ardentemente al pieno soddisfacimento dei piaceri mondani, il suo continuo richiamo all'interiorità era divenuto insopportabile, anche perché taluni, fraintendendo il suo pensiero, credettero che egli corrompesse i giovani istigandoli contro gli Ordini costituiti e contro quelle che si ritenevano le giuste leggi morali, sociali e giuridiche allora vigenti. In tale stato di cose, è naturale che, fra Socrate e sofisti, gli ateniesi dovessero preferire questi ultimi. Questi, infatti, esaltavano, insegnavano a vivere gioiosamente la vita, li spingevano al pieno godimento dei beni mondani; con le loro tesi riaffermavano il valore del singolo individuo e lo mettevano in condizioni di emergere, di comandare e di soddisfare le proprie ambizioni: non altruismo, quindi, ma egoismo e tendenza alla sopraffazione dei buoni, dei deboli e degli incapaci. Anche Socrate ammette 1uomo principio di tutte le cose, ma, a differenza di Protagora, egli concepisce 1'uomo dotato non soltanto di sensazioni, ma anche di ragione e assegna a questa il precipuo compito di illuminare e riaffermare i valori universali calpestati. Anche Socrate, come i sofisti, rinuncia ad ogni accettazione acritica e afferma il valore costruttivo dell'uomo. Egli non disconosce nemmeno il valore delle sensazioni, quali componenti dell'attività umana; ma esse non sono, come per Protagora, punto di partenza, ma strumenti su cui si esercita 1'attività critica e indagatrice della Ragione per affermare i valori universali tanto nel campo teoretico che pratico. Socrate è, quindi, contro tutto ciò che è individuale e particolare; propugna un sapere universale, fatto di ragione e non di sensazioni, non prova alcun attaccamento e stima per le cose esteriori; ricerca anche lui la felicità, ma non quella felicità che risiede nel soddisfacimento di inclinazioni e ambizioni particolari; non nell'adulazione e nelle passioni e agitazioni sfrenate. La sua è una felicità interiore, è rettitudine di vita, continuo richiamo alla coscienza; conquista personale, fatta di sacrifici, di rinunzie, di privazioni, di elevazione spirituale; è felicità fondata sulla conoscenza di sé stessi che significa autocontrollo, senso del limite e di moderazione, propensione ai beni universali, amore ai propri doveri, avversione al male e per esso all'ignoranza che ne è la causa. E' logico che Socrate non poteva lusingare i suoi concittadini come i sofisti ed è logico che essi, volti ai beni mondani che affannosamente perseguivano, dovessero finire con lo stancarsi di lui e fossero quindi indotti ad intentargli giudizio. Per 1'occasione, Socrate diede ancora prova della coerenza e del profondo senso della giustizia che lo aveva animato per tutta la vita. Infatti: avrebbe potuto non presentarsi ai giudici e invece si presentò da se stesso: il Demone a cui irresistibilmente obbediva, non gli avrebbe consentito di agire diversamente; presentatosi, avrebbe potuto essere più arrendevole e ottenere dai giudici che non erano maldisposti, una certa comprensione. Egli invece coglie  l’occasione per continuare la sua opera di richiamo alla coscienza e alla virtù. Non parla da colpevole, ma riafferma la legittimità e l'utilità della sua opera che continuerà a svolgere se i giudici lo lasceranno libero. Egli li irrita e determina la sentenza di morte che accoglie con tutta tranquillità. Avrebbe potuto fuggire dal carcere e tale proposta, fattagli dal buon Critone, gli fornisce ancora l'occasione di continuare la sua opera altamente educativa e morale. Lo vediamo, infine, trangugiare tranquillamente la cicuta; sentirsi prendere dalla morte senza alcun senso di sgomento, senza un segno di dolore, o di pentimento, tutto proteso verso un mondo superiore. Nell'attesa che la cicuta compia completamente il suo letale effetto, lo vediamo intento a confortare e a rasserenare i suoi discepoli che, sgomenti e piangenti, assistono alla sua dipartita. Socrate non è morto solo per obbedire allo Stato, come dice Zeller, ma anche e soprattutto per suggellare la sua opera, per renderla imperitura e valida non soltanto per i suoi concittadini,

ma anche per gli uomini di tutto il mondo e di tutti i tempi. Come afferma lo stesso Zeller, la morte fu il più alto trionfo della sua causa, il culmine più luminoso della sua vita, l’apoteosi della filosofia e del filosofo. Non c'è dubbio che se Socrate avesse agito diversamente, se egli avesse avuto paura della morte e l' avesse evitata, il suo insegnamento si sarebbe dimostrato vana ciarlataneria e il suo nome sarebbe giustamente caduto nell'oblio, certamente commiserato o disprezzato da chi lo aveva seguito con fede ed entusiasmo. Il suo nome e il mirabile esempio della sua vita rimase ricordo vivo e affettuoso nei suoi discepoli che lo hanno immortalato nei loro scritti e tramandato ai posteri. Possiamo, infatti affermare che, dopo 24 secoli dalla sua morte, Socrate è ancora vivo fra di noi e, considerata l’attuale situazione spirituale, morale e sociale possiamo anche affermare che egli è contro di noi come ai suoi tempi fu contro i sofisti. Non si può negare che tutto il suo insegnamento è contro di noi per il clima in cui viviamo, per 1'abbassamento dei valori, per 1'attaccamento ai particolarismi, agli interessi individuali ed egoistici, per la mancanza di rettitudine, per la coscienza egoistica che ci governa; è contro di noi perché siamo portati continuamente a transigere con noi stessi, a non ascoltare il richiamo della nostra coscienza, ingolfati come siamo nelle passioni, nell'inganno morale, nell'affannosa ricerca di una illusoria quanto effimera felicità. Il nostro tempo si può paragonare a quello di Socrate. Il clima in cui noi viviamo, è quello determinato da una grande e tenibile guerra come quello del tempo di Socrate che era stato determinato dalla disastrosa e fratricida guerra peloponnesiaca. Come quella, anche questa ha portato non solo all'instaurazione di idee e ordini nuovi e positivi, ma anche allo scatenamento di passioni e ambizioni individuali, al rilassamento di costumi e sentimenti, il che si ripercuote ancora oggi negativamente sulla politica, sulla vita pubblica, sulla vita religiosa, morale e sociale e familiare. Le guerre non sono catartiche e selettive, come vogliono Hegel e altri filosofi, ma sono al contrario causa di dissesto non solo materiale, ma anche e soprattutto morale e spirituale, pur dovendosi riconoscere che nel campo scientifico determinano progressi e avanzamenti insospettati che ci riempiono di ammirazione ma anche di paura.

Viviamo, certo, in un'età di crisi, simile all'età dei sofisti. Come allora, torna a dominare il relativismo, l'individualismo più gretto, l'esigenza di proiettarsi all'esterno. Relativismo e scetticismo, indifferenza e sfiducia caratterizzano la nostra età come hanno caratterizzato l'età sofistica. La crisi attuale è, infatti, determinata dalla mancanza di fiducia in quegli alti ideali che dovrebbero costituire il tessuto connettivo della nostra vita, la realizzazione di una vita moralmente sana. Oggi, si nota sfiducia e indifferenza in tutto e in tutti: nella vita pubblica e privata, nella religione, nella politica, nella famiglia. Ciò avviene perché la pratica non corrisponde alla teoria; perché gli alti ideali decantati e sbandierati nelle chiese, nelle adunanze, nelle piazze, nelle scuole, sulla stampa, rimangono spesso sterili e inattuati; perché si tende a dare rilievo alle apparenze, spesso all'avere più che all'essere; perché tendiamo ad attuare il nostro sfrenato individualismo senza tener in debita considerazione i diritti altrui.

Perché, come dice il Maritaine nella sua opera "L'educazione al bivio" rilevando taluni errori della pedagogia moderna, si perde il vero fine dell'educazione stessa. E’ necessario quindi eliminare la dominante sfiducia per superare la crisi in cui viviamo, ed eliminare si potrà se tutti, ognuno nella propria sfera d'azione, sapremo operare una radicale conversione dall'esterno all'interno, dall'apparenza ai fatti, dall'ipocrisia alla sincerità, dall'astuzia e dall'inganno alla lealtà, dall'egoismo all'altruismo che ci porti a solidarizzare con i nostri simili, a considerarli come noi stessi, ad amarli come fratelli, giusto il precetto evangelico; se, con la pratica della nostra vita, sapremo dissipare in chi ci circonda 1'ombra del dubbio, della diffidenza che spinge gli uni a vedere negli altri malfide intenzioni, fini reconditi e interessati e ipocrite adulazioni, volte al soddisfacimento delle aspirazioni individuali. In tale clima di sospetto, di diffidenza, la vita

non può riacquistare la dovuta serietà e costruttività e se non concorreremo tutti al rialzo dei valori spirituali, il crollo sarà irreparabile e catastrofico. S'impone quindi l'invito socratico a rientrare dentro di noi; a scrutare e seguire la retta coscienza; ma, come rileva la Sauvage, è tale invito che gli uomini amano meno richiamare alla loro memoria. Socrate non ha bevuto la cicuta solo nel 399 a.C., ma da allora l’ha bevuta tutti i giorni offeso quotidianamente da coloro che non hanno eretto la coscienza a norma di vita.

Lo offende e condanna spietatamente Georges Politzer quando nella sua "Critica dei fondamenti della psicologia", negando i valori spirituali, si chiede: "che fare di tutte queste saggezze che invitano l'uomo ad approfondirsi, quando si tratta precisamente di obbligarlo ad uscire dalla sua forma attuale?" e, ponendosi, come rileva Sauvage, contro la direttiva che da oltre 24 secoli Socrate ci indica, sostituisce l'imperativo delfico del "conosci te stesso" col nuovo comando che riflette le sue aspirazioni e che si adegua alla generale concezione della vita attuale: "crea te stesso: crea te stesso, liberandoti anzitutto, del mito dell'uomo ulteriore, che costringe la nostra civiltà tra l’ossessione della trascendenza e la mania puerile e malsana dell'introspezione, dell'auto-analisi, delle confessioni e del giornale intimo".

In tale situazione, noi ci richiamiamo continuamente a Socrate, anche inconsapevolmente, quando lamentiamo il rilassamento dei costumi che investe la società tutta con le sue istituzioni politiche, civili e religiose; quando stigmatizziamo l'immoralità pubblica e privata nelle sue varie forme e manifestazioni; quando i fatti di cronaca nera e meno nera ci forniscono un'idea sempre più chiara della bassezza morale in cui viviamo e del pericolo che continuamente incombe su di noi, sulle nostre famiglie e sull'esistenza e sopravvivenza delle stesse vigenti istituzioni sociali. Ma non basta rilevare e censurare i mali: è necessario eliminare radicalmente il marcio che è in noi.

Non basta richiamarsi a Socrate, ma è necessario rivivere e attuare il suo insegnamento. E precisiamo: tale insegnamento ci invita a rientrare in noi stessi, ma non ad estraniarci dalla vita; Socrate non è un mistico e non propugna quindi una vita ascetica. La sua vita ci è di esempio: egli vive in una continua relazione umana e non disdegna di gustare anche i beni e i piaceri umani. Nel "Convito" Platone ci mostra Socrate commensale e partecipe ai piaceri della mensa. Ma mentre gli altri commensali, ebri, cadono storditi al suolo, egli, con 1'animo imperturbato, torna al suo lavoro, al suo insegnamento quotidiano, nella piena padronanza di se stesso. Socrate ci invita all’autocontrollo, al padroneggiamento delle passioni, al moderato godimento dei piaceri mondani; ci invita non all'edonismo, ma all'eudemonismo, alla felicità fatta di virtù e di autocoscienza. E' la perfezione umanamente possibile che Socrate intende realizzare; perfezione che non ha in un modello esterno e precostituito la sua adeguazione, ma è fatta di equilibrio ulteriore, di riflessione e di autoconsapevolezza. E' una perfezione che non spunta all'improvviso ma è nostra faticosa conquista che, come tutte le conquiste, richiede sforzo, rinunzie, spirito di abnegazione, soddisfacimento pieno e totale delle nostre esigenze ulteriori. A questo fine è necessario rientrare in noi stessi e da qui iniziare la ricerca che ci scoprirà orizzonti sempre più vasti, costituenti i gradi del nostro progressivo perfezionamento. Dobbiamo rientrare dentro di noi per poterci meglio conoscere, per poter scrutare il nostro Io più profondo; senza di che non è possibile avere un solido punto di riferimento per i nostri giudizi e poter agire con coerenza; e non è possibile fondare valide e proficue relazioni umane. Senza aver conquistato il pieno dominio di noi stessi e senza orientarci verso la virtù, non è possibile dissipare dubbi, sospetti e diffidenze; non è possibile eliminare la sfiducia e lo scetticismo che tolgono alle nostre azioni calore, slancio ed entusiasmo.

 

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L'amicizia

Di Elena Aldrighetti

 

Chi trova un amico trova un tesoro.

Spesso abbiamo sentito ripetere questa frase, poche volte vi abbiamo riflettuto sopra.

Oggi come oggi è veramente difficile trovare una vera amicizia. Io ritengo che amicizia e amore, spesso, si equivalgano, mi spiego. Il legame esistente fra due migliori amici e quello fra innamorati è praticamente identico. Come non si può rinunciare e fare a meno dell’innamorato o dell’innamorata, così, almeno per me, non si può fare a meno del migliore amico.

In questa società dove tutti corrono, dove tutti pensano solo a comprare, accumulare, i valori dei sentimenti spesso vengono dimenticati. Sarà perché sono in un momento particolare della mia vita, ma ho pensato molto a questi valori. Sovente capita di sottovalutare i sentimenti altrui. Si dà per scontato che un amico ti voglia bene. Invece bisognerebbe ascoltare maggiormente gli altri.

Cercare di capire cosa ci lega ad una persona piuttosto che ad un’altra.

Inoltre credo sia doveroso dire spesso che si vuol bene. Io sono contenta quando chi mi vuol bene me lo dice, non si deve dare nulla per scontato. I rapporti finiscono soprattutto per mancanza di comunicazione e per gelosie inutili. Credo che il difetto maggiore che abbiamo è quello di credere nostre proprietà coloro che amiamo. Quando sento qualcuno dire che siamo sempre più soli, penso che tutto sommato è vero.

Magari siamo attorniati da persone, chattiamo e intratteniamo amicizie telefoniche o via e-mail, ma nel concreto? Ora poi che vogliono obbligarci ad avere la televisione interattiva, le cose peggioreranno ancor di più. Si può fare la spesa da casa col computer, pagare le bollette via internet e fare ogni tipo di acquisto in rete. Molte persone lavorano fino a tarda sera e quando arrivano a casa, sono talmente stanche che non vedono l’ora di andare a letto. Ci si chiude sempre di più in casa. Andando avanti di questo passo, i rapporti interpersonali diminuiranno sempre di più. Ultimamente le notizie del telegiornale non fanno altro che informare su omicidi casalinghi. Sembra quasi che le case di tutti noi abbiano due faccie, un po’ come Dottor Jekyl e Mr. Hyde. L’apparenza è una cosa, la sostanza un’altra. Dico la verità, tutto ciò mi rattrista e mi preoccupa. Io ho sempre dato importanza al rapporto fra individui. Per me è molto importante la conoscenza fisica di una persona. Poter dialogare con qualcuno avendolo di fronte è tutt’altra cosa che farlo attraverso un cavo telefonico. Spero davvero che la gente comprenda tutto questo e che si possa dare un calcio a tutto ciò che è virtuale. L’amore di un amico deve essere reale come la sua presenza.

La nostra vita è, nel bene e nel male, reale. Un abbraccio e un sorriso sono impagabili e si possono avere solo frequentando le persone. Quando vedo mio padre che vive in casa, esce veramente poco e non ha amici, penso che sia molto triste trovarsi soli a rapportarsi con la televisione.

Io come amico non voglio un mezzo tecnologico!!! La tecnologia che dovrebbe renderci più liberi, spesso ci rende invece suoi schiavi. Davvero chi trova un amico trova un tesoro, l’importante è che questo amico sia reale e tangibile!!!

 

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SPAZIO DONNA

Violenza e abuso come compagni

Di Veronica Franco

 

Avere la consapevolezza che nella nostra società c’è sempre stato chi ha “causato" violenze e abusi di ogni genere e chi li ha subìti, forse ha fatto trascurare nello specifico, le situazioni analoghe nei riguardi delle donne in situazione di svantaggio particolare, ovvero portatrici di handicap. Nella fattispecie ci riferiamo alla nostra categoria dove, le donne, hanno problemi di vista più o meno gravi fino ad esserne prive completamente. Nel giugno scorso a livello aassociativo nazionale dell’UIC, la Commissione per le Pari Opportunità è riuscita ad avere l’attenzione del direttivo proprio sulla tematica dei soprusi, ipotizzandolo, segretamente celato, nella vita delle nostre socie. Ha così antecedentemente presentato un progetto di indagine riservata, su territorio nazionale, proponendolo attraverso tutte le sedi UIC e fornendo un modello di scheda. Se qualcuno fosse stato interessato riempendola adeguatamente, poteva partecipare al progetto; gli si offriva di “confidare” i dolori e le umiliazioni indicibili, repressi nel loro io più profondo, con la garanzìa della riservatezza più assoluta. Dal 5 al 7 dicembre scorsi è stato organizzato poi, un convegno con il preciso scopo di puntualizzare attraverso relatori di tutto rispetto (esperti in sociologia, psicologia oltre che componenti degli stessi gruppi di discussione creati per la realizzazione del progetto), per aggiornare e discutere i risultati di tale proposito, mettendone al corrente i rappresentantni di tutte le sedi provinciali UIC; una convocazione voluta dalla sede centrale.

Pare superfluo dirlo, ma lo vogliamo sottolineare comunque, le presenze sono state quasi all’unaminità per le regioni delle quali, hanno presenziato in diverse province, e, per la quasi totalità, eravamo tutte donne. Alcune figure maschili tra i presidenti sezionali sensibili all’argomento, hanno assistito personalmente… forse qualche accompagnatore per l’occasione.

Ci siamo accomodate nella sala riunioni messa a disposizione per l’occasione nel complesso de “Le Torri” a Tirrenia, conoscendo l’ordine del giorno ma inconsapevoli di quanto avremmo udito in questo incontro, che come tanti appuntamenti associativi, sembrava una riunione come le altre, necessarie per la “nostra unione”; non è stato così.

Quasi immediatamente tutte abbiamo capito la profonda differenza tra i vari propositi e proponimenti progettati ad un tavolo e la cruda veridicità dei fatti che avrebbero costituito la pienezza di quell’incontro.

Dopo i saluti convenuti di chi presidiava e le presentazioni delle personalità partecipanti come ospiti e il contributo dei noti relatori, l’ordine del giorno indicava i contenuti delle presentazioni sociologiche e psicologiche così diverse nel loro contenuto e nelle loro estensioni, ma parallele sul fondamento del loro scopo. Indagini sondaggi e ricerche lunghe nel tempo fatte sul “campo”, un campo chiamato vita, dedite a dimostrare quanto c’era di poco umano nell’esistenza di persone, donne per lo più, con vicende personali, fondate sulla paura, le umiliazioni, le privazioni, le violenze che hanno il potere di rubarti la gioia e il sapore della vita.

L’atmosfera della sala era “attenta”; sembrava impossibile ma per quanto vi prestassi attenzione, nessuno pareva disinteressato o distratto, oserei dire che c’era un “rapimento” generale, nessuno perdeva una parola di quanto veniva detto. Poi l’intervento informativo sul vero e proprio lavoro dei nominati “gruppi di discussione”; un’esperienza definita oltremodo coinvolgente, dura per certi aspetti. Qualcosa che non ha potuto lasciare indifferenti.

Si è trattato di momenti di condivisione profonda, di crescita collettiva, di acquisizione di grande consapevolezza che avevano, in taluni casi oltrepassato ogni loro e nostra aspettativa.

Risultava difficile scegliere e descrivere un numero limitato di incontri estrapolandoli dagli oltre duecentocinquanta, in poche righe per portarci le testimonianze della sofferenza. Dopo una grande riflessione, la commissione delle pari opportunità aveva seguito l’esempio di quanto viene normalmente fatto da tutti i centri antiviolenza di tutto il mondo. Private le storie più significative senza voler nulla togliere alla gravità di ognuna, i riferimenti anagrafici, temporali, di tutti quegli elementi che potessero far individuare le protagoniste, per dare a tale relazione un taglio non teorico ma basandola sulla concretezza, per far comprendere anche a chi ha sempre sottovalutato il problema della violenza in relazione alla

disabilità, quanto essa esista invecee, soprattutto sia atuale. La realizzazione del progetto prevedeva la suddivisione del territorio nazionale in tre parti, nord, centro e sud, costituendo due centri di discussione al nord, quattro al centro e quattro al meridione, permettendo alle interessate un più facile raggiungimento; era stato semplificato questo compito, trovando molta disponibilità da parte di alcuni dirigenti e la collaborazione delle rappresentanti provinciali che venivano ringraziate, in quel momento, pubblicamente.

La relatrice che leggeva, aveva una voce calma, chiara, dal suo tono traspariva soltanto l’emozione della consapevolezza di diffondere la gravità delle barbarie sopportate dalle donne incontrate e non solo.

Noi che l’ascoltavamo, eravamo così partecipi a quelle verità, da sembrare una sola ed unica anima.

Le donne che si sono raccontate, nel pensare alla violenza si rappresentavano soltanto esclusivamente, in vissuti fatti di stupro o di molestie sessuali; così in cuor loro ritenevano di non essere mai state oggetto di alcun abuso . Ma ecco che a poco a poco, veniva loro spiegato il significato di violenza psicologica o sociale e così si sviluppava in loro una nuova autocoscienza. Emergeva il sommerso delle violenze patite e non riconosciute, cosa assai grave, dati i comportamenti inaccettabili che risultavano invece normali. L’adesione al progetto era stata di donne di età cultura ed estrazione sociale assai diverse, aventi il denominatore comune : della disabilità visiva. In taluni casi però, avevano voluto prendere parte agli incontri donne normodotate o soggetti con disabilità motorie ed alcuni uomini accettati profondamente dalle donne, ottenendo un risultato positivo riscontrato dell’abbattimento del muro di diffidenza reciproca perché cosa mai semplice.

Una donna nominata “Enza” così si era espressa: -Ho subito molte violenze nella mia vita, tuttavia ho sempre tentato di fornire all’esterno un’immagine diversa; mi sono costruita una facciata. Ora che per me sento mi sarebbe importante parlare di queste esperienze con tutte voi, ne ho paura, temo il vostro giudizio... Bene o male ci si conosce tutte.-

Ma “Enza” era stata incoraggiata e rassicurata dalle altre, : -a nessuno è consentito giudicare, specialmente in questi casi.- e così era riuscita a raccontarsi.

Il resoconto continuava, rendendoci partecipi del lavoro fatto. Ascoltavamo il fiume di parole - venendo a conoscenza delle gravi forme di violenza perpetrate all’interno delle famiglie: genitori che non accettando la minorazione delle proprie figlie, le avevano confinate per anni, in un letto letteralmente segregate dentro casa. Ciò si era verificato in piccoli centri, dove avere un figlio handicappato costituisce, in ambienti poco scolarizzati, motivo di vergogna. E purtroppo non abbiamo potuto pensare di riferirci ai così detti "tempi passati". Ci sono stati riportati casi, da persone aventi oggi, venticinque anni… quindi parve abbastanza preoccupante la questione. Continuavamo a seguire la relazione ripercorrendo insieme alcuni tra i casi più significativi. In particolare, seguì la storia di “Angela”, una donna del centro sud, piuttosto anziana, cresciuta in un istituto, dove prima bambina aveva conosciuto le prepotenze dei compagni più grandi, senza la più piccola speranza di essere difesa perché là dove gli insegnanti prima, ed i tutori poi, ormai cresciuta ai quali era stata affidata dalla famiglia, la sottoponevano a violenze e soprusi di ogni genre, compresi quelli fisici. Data l’educazione di quel tempo era impensabile, per lei, confidare a qualcuno quanto le succedeva e quanto sopportava… la vergogna e il sicuro scetticismo dei congiunti a crederle, l’hanno costretta a vivere con quel peso tutta la vita senza conoscerne l’indicibile entità. La nostra cara amica era cieca dalla nascita.

Una sorte molto simile era toccata a “Giulia”, un’amica di circa trent’anni, ma con un risvolto per fortuna del tutto diverso. Originaria del centro nord e cresciuta fino all’età scolastica a casa, aveva conosciuto l’istituto per essere agevolata a studiare perché seguita meglio; quindi i propositi della famiglia erano soltanto positivi. Ma anche lei ha dovuto fare i conti con l’umiliazione dell’emar-ginanzione e della non considerazione umana da parte dei rettori perché ritenuta “poverina”, limitata nelle sue capacità. “Giulia” non è cresciuta conoscendo il sorriso e, dopo la separazione dei suoi genitori, imponendosi di arrivare alla maturità per conquistare l’indipendenza professionale, o meglio per prepararsi a quanto supponeva l’aspettasse fuori da quelle mura, raggiunto il suo scopo e scopertasi tanto forte da tentare di farcela da sola, decise di non tornare più a casa. Non possiamo certo discutere sulla tipologia della

sofferenza provata, ma sicuramente i tempi diversi, le famiglie diverse ma lo stesso destìno, hanno reso queste vite diverse…

Anche per lei c’era stata il non poter dire e il non poter fare, non per mancanza d’amore, ma si può rendere partecipi anche chi ci ama della nostra “oscurità”?

Continuando ad ascoltare la relatrice in quel “riassunto demagogico” perché il significato si potrebbe concentrare nelle poche parole di sconosciuti obbrobri, i racconti delle vicende di chi aveva scelto di liberarsi l’anima, mi sono sentita raccapricciare oltre che come donna ed essere umano, anche come mamma, da una vicenda che sembrava uscita da un thriller dell’orrore e, come sono sicura per tutti i presenti, è stato motivo di sconvolgimento interiore e talmente profondo, da desiderare di non essere lì in quel momento o che fosse tutta una finzione quanto ci veniva letto.

In questa vicenda vi era coinvolta tutta una famiglia e mi scuso se non avrò la capacità di scrivere tali brutture con le parole più giuste ma, anche in questo preciso momento, è inevitabile il mio turbamento.

La cara amica di ciò che è avvenuto la chiamerò “Anna” e suo marito, vedente, “Luigi”. Sono genitori di tre bambini tutti in tenerissima età che varia dai due ai cinque anni voluti e desiderati nonostante le innumerevoli difficoltà che si incontrano nella quotidianità della vita di oggi nel crescere dei figli; sono una famiglia felice e spesso vengono aiutati, proprio per accudire loro, da parenti ed amici. Consapevoli dell’importanza di quell’aiuto fondamentale e di ogni cosa, riescono così ad essere buoni genitori. Ma accadde qualcosa che stravolse quel tranquillo equilibrio...

Dopo qualche tempo dalla ripresa del lavoro di “Anna”, in un giorno qualsiasi, appena rientrati da fare la spesa e ripresi i bambini dalla casa del loro “amabile” vicino che si offriva di accudirli dato che anch’egli era sposato e padre di due bimbi; proprio lei mentre faceva il bagnetto ad uno dei tre, le parve che qualcosa fosse cambiata in lui. Concentrandosi sul comportamento anche degli altri, scoprì, pur non vedendo, da tanti piccoli particolari che i suoi figli non erano più gli stessi. In qualche modo le parevano cambiati e, talvolta le domande che le facevano, riteneva impensabili fossero frutto della loro conoscenza infantile. Ella commise il primo suo grande errore, per paura di essere “giudicata” apprensiva senza motivo, come poi ha riconosciuto aprendosi al gruppo d’ascolto che ha raccolto la sua testimonianza, non rivelò le sue inquietudini a “Luigi”e continuò a carpire elementi opprimenti. Ma il silenzio non durò molto e messo a conoscenza delle sue paure il marito, cominciò a fargli notare quanto lei percepiva. Da quella confessione i due, collaborando insieme, riuscirono a trovare il motivo di quel comportamento tanto disdicevole e, soprattutto, riuscirono a trovarne la causa. O meglio dire chi lo provocava.

Gesti istigatori dei bambini, parole “sconce” atteggiamenti intimi da adulti in miniatura e pur se inorriditi dalla certezza di tale violenza e approfitto dell’in-nocenza più assoluta, la loro conclusione sull’amabile vicino era chiara: una abbietta persona, che a parer di ogni individuo che abbia una morale, una decenza o una qualsiasi dignità, non avrebbe avuto il diritto di esistere.

L’analisi di tutta questa vicenda andata oltre l’immaginabile fantasia di violenza fisica e psicologica, era stata quella di non aver nessuna possibilità di dimostrare quanto scoperto ma soltanto il rischio di essere una coppia penalizzata dalla probabile dimostrazione di non avere le capacità di crescere dei figli. Quanto disprezzo provato per sé stessa e quanta rabbia da parte di “Luigi” nel condiscendere il volere della moglie che, annientata dal disgusto e antecedendo a tutto l’amore per i suoi banmbini, preferì non lavorare più e prendendo la decisione di cambiare casa e paese, rinunciarono a qualsiasi tipo di denuncia sopportandone il peso.

Con la conclusione dei fatti narrati nella relazione della commissione delle pari opportunità ideatrice di tale progettto provatorio di crudeltà e violenze sopportate e subìte dalle donne già “colpevoli” di portare un handicap come quello visivo, era palesemente dimostrata la fondatezza dell’intento di tale servizio a beneficio di tutte noi, noi donne che oltre della nostra mancanza, soffriamo anche del disinteresse sociale nella peggiore delle sue forme: l’emarginazione spesso scaturita dalla paura ma quasi sempre dall’ignoranza. Sappiamo che ogni essere se donna, può soffrire di tali situazioni e non voglio certo peccare di vittimismo, ma a noi prima non aveva mai pensato nessuno ed io, oggi mi sento purtroppo, meno sola.

 

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SPORT

I ciechi e la vela

Di Barbara Falconi

 

Un giorno un amico non vedente mi ha chiesto: “Possiamo imparare noi ad andare a vela?”. La mia risposta spontanea è stata un’escla-mazione, “Potessi sentire io, il vento come voi!”.

Da questo è nata un’idea, una scommessa ed un proposito; voglio riuscire a regalare a questo amico il vento!

Da oggi è nata l’associazione Wejna Sail per promuove il progetto “Pari opportunità nel vivere il vento”; è  con questa iniziativa  che intendiamo diffondere la navigazione a vela, come superamento di limiti sensoriali.

Con il nostro progetto speriamo di scoprire insieme, che non esistono barriere al nostro senso di libertà, per questo stiamo organizzando un corso di navigazione per non vedenti, finalizzato a raggiugere la capacità di stabilire una rotta e mantenerla.

Adesso abbiamo bisogno di amici che ci aiutino a raccogliere i fondi necessari per muovere i primi passi di questa avventura, che ci sostengano non solo economicamente, ma che ci aiutino con la loro fantasia e che ci accompagnino con il loro affetto.

Ci impegnamo così a creare un’opportunità, per chiunque non sia in grado di vedere, ma comunque di sentire e toccare, profumi e sapori esotici. Insomma abbiamo una barca, e se abbiamo voglia di navigare, decidiamo una rotta.

Aspetto una vostra risposta e confermandovi la mia voglia di esserci, vi aspetto per una buona navigazione in nostra compagnia.                                         q

 

Per informazioni e contatti potete rivolgervi a:

Barbara Falconi, presidente dell’associazione Wejna Sail

Tel.: +393387778527

email:barbarafalconi@virgilio.it

Antonio Quadraro, vicepresidente dell’associazione Wejna Sail

c/o Unione Italiana Ciechi Firenze tel.: 055580319

Presto sarà disponibile il sito web: WWW.WEJNA SAIL.IT

 

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La fine di un incubo e di un sogno

Di Maria Garcia

 

Mercoledì scorso, al termine dei funerali di Marco Pantani, svoltisi nella chiesa di San Giacomo a Cesenatico, la sua manager, Manuela Ronconi, ha letto l’ultima lettera scritta dal Pirata. Per le ragioni che vi spiegherò più avanti, quella sorta di testamento lasciato sia alla sua famiglia, sia ai suoi numerosissimi tifosi, mi ha molto colpita ed è stata la sua ultima frase (“tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare”) quella che mi ha spinta a scrivere queste righe. A Marco ho sempre creduto dal 1994, credo e ci crederò sempre, ed è per questo che vorrei compiere questa sua ultima volontà espressa a tutti i suoi tifosi allo scopo di rendergli, nella piccola misura in cui mi è possibile, il mio ultimo omaggio.

Dalla sciagurata serata di San Valentino in cui è stato trovato il suo cadavere fino ad oggi, si è parlato tantissimo della sua vita, dei suoi anni di gloria come professionista, dei suoi ultimi giorni, ecc. Perciò mi sembra inutile riparlarne ancora, e così, preferirei spostare la mia attenzione sui ricordi personali che mi suscita Marco Pantani, dopodicché vorrei analizzare alcuni punti poco chiari dei suoi ultimi anni esprimendo al riguardo il mio parere personale

Come ho già accennato, Marco Pantani  ha segnato profondamente la mia vita dal 1994 fino ad oggi e in questi giorni così tristi in cui tutti noi piangiamo la sua morte, vorrei condividere con voi alcuni dei ricordi che mi ha lasciato per sempre.

Quando Pantani esordì nel Tour del '94 (alla sua prestazione nel Giro di quell’anno non ci badai molto perché allora lo ritenevo uno sconosciuto), avevo soltanto tredici anni, e così, per Marco, fu facilissimo entrare nel mio cuore, penetrarci fino in fondo, e rimanerci per sempre, facendomi non soltanto provare delle emozioni fortissime ogni volta che lo vedevo sferrare uno di quei suoi attacchi micidiali in salita, che nessuno di noi potrà mai scordare, ma giocando un ruolo importantissimo e per molti forse incredibile nei fatti che a prima vista potrebbero sembrare più insignificanti della mia vita quotidiana di ragazza.

Il primo segno e forse il più importante e duraturo che Marco lasciò in me riguarda la mia grandissima passione per la lingua italiana. E' vero che l’italiano è una lingua per cui ho sempre provato un grandissimo amore e l’ho sempre ritenuta forse la più bella al mondo, ma è anche vero che, malgrado la mia voglia (che avevo già da tempo) di studiarla, non c’ero mai riuscita e quindi, nel 1994, non esagero se vi dico che non ero in grado di mettere in fila due parole e che non capivo quasi niente. Ebbene, Pantani, e la grandissima voglia di capire quello che diceva nelle migliaie d'interviste che rilasciava, senza dover dipendere da una traduzione che, a volte faceva perdere tante parole, mi spinse definitivamente negli anni successivi allo studio di questa lingua. Il risultato ottenuto è che oggi, sono diventata traduttrice giurata di italiano cosìcché questa lingua meravigliosa è diventata uno strumento molto importante del mio lavoro.

Ma Pantani ha influenzato la mia vita quotidiana in tanti altri aspetti. Per elencarne soltanto alcuni (giàcché fare una lista completa sarebbe molto lungo e noioso per i lettori) posso dirvi che durante lo svolgimento dei Giri e dei Tour a cui Marco ha partecipato (soprattutto nei giorni in cui i corridori dovevano affrontare una tappa in salita), lui è sempre diventato il punto di riferimento assoluto delle mie giornate quotidiane, facendo dipendere i fatti che dovevo compiere in ognuno di quei giorni dall’ora e dal risultato della gara. Così,  durante il Giro e, dato che a maggio essendo ancora studentessa, non avevo mai le vacanze, facevo del mio meglio per ritardare l’ora del pranzo (nel Giro del '98, dato che in quei giorni dovevo rimanere a casa a studiare per l’esame di Maturità) per poter guardare la tappa mentre pranzavo, oppure, quando negli anni successivi sono andata all’università, cercavo di studiare i più possibile prima della tappa, per poi potermi sedere sul divano davanti alla TV a guardare tranquillamente gli  scatti sferrati da Marco nelle salite, che mi emozionavano così tanto e mi riempivano il cuore di una gioia immensa. D’estate, al Tour (che ascoltavo sempre su una sdraia in piscina), facevo dipendere le ore in cui mi andava di fare il bagno dall’ora della tappa, e finita questa, il mio umore era diverso a seconda del risultato ottenuto da Marco: se gli era riuscita bene, provavo un gran bisogno di ringraziarlo per le  emozioni vissute, cosìcché (e  benché l’acqua fosse già abbastanza fredda e non ci fosse più il sole), mi buttavo in piscina e mi facevo 20 o 30 vasche tutte d’un fiato e senza fermarmi nemmeno una volta, rischiando certo di finire con le braccia indolenzite; comunque, non me ne importava niente. E se invece le cose andavano male, mi arrabbiavo e mi lamentavo del risultato (quasi sempre criticando la prestazione degli altri corridori) davanti a chiunque. Poi, la sera, mi mettevo ad ascoltare lo stereo e, ognuna delle canzoni che mi piacevano in quell’epoca (ricordo due cd dei Collage che mi regalarono in quell’epoca, alcune canzoni di Ramazzotti, di Laura Pausini, ecc.) mi ricordava le grandi gesta compiute dal “pirata” in quel pomerigio primaverile o estivo. Per non dilungarmi molto nei miei ricordi, forse troppo personali e di scarso interesse per i lettori, dirò soltanto che in quei mesi, la figura di Pantani diventò molto importante per i miei studi, essendo in grado di farmi rimanere una sera davanti ai libri senza essere capace di memorizzare nemmeno una pagina (per il nervoso causato dall’impossibilità di guardare la tappa dolomitica di quel giorno e dell’incertezza che provavo) ma dandomi anche la forza (quando la tappa era andata bene) di poter assimilare velocissimamente il contenuto di un gran numero di pagine. Tutti questi ricordi si sono risvegliati nella mia mente da domenica mattina quando mi hanno dato la notizia della sua

morte, e si sono mescolati alle riflessioni che ho iniziato a fare dopo aver sentito, giorno dopo giorno, lo svolgimento della ricostruzione degli ultimi anni e degli ultimi fatti della sua vita, ai quali vorrei fare riferimento di seguito, per adempiere al monito di parlare che Marco ha fatto a tutti noi tifosi nella sua ultima lettera. Come hanno detto tutti i cronisti, il suo calvario e l’ine-sorabile cammino verso la sua morte, sono iniziati quello sciagurato 5 giugno del '99 in cui, Pantani è stato squalificato dal Giro (un giorno prima della sua fine) per avere un livello troppo alto di ematocrito nel sangue; ebbene, credo sia da questo fatto che debbano partire tutte le riflessioni.

Abbiamo letto e sentito in questi giorni che, di solito, quando un corridore (e ce ne sono stati parecchi casi) è escluso da una gara ciclistica per questo motivo, subisce come sanzione una sospensione di quindici giorni durante i quali non può partecipare a nessuna gara ufficiale, dopo di che può tornare a correre senza nessunissimo problema. Ebbene, ecco qua la prima differenza fra Pantani e gli altri, dato che lui, anziché subire tale divieto, ha deciso di rifiutarlo, scegliendo la strada delle proteste  per la sua squalifica e delle rivendicazioni della sua innocenza; beh, questo fatto ci suscita indubbiamente una riflessione molto profonda e importante. Nel caso in cui Marco avesse effetivamente preso quella sostanza proibita (la famigerata Epo) e ne fosse stato in perfetta conoscenza, che senso avrebe avuto rifiutare la sospensione  e cercare di far credere ai tifosi un’innocenza che lui sapeva finta? E, ovviamente, se era in perfetta conoscenza di aver preso una sostanza proibita, che senso avrebbe una depressione? Sinceramente in queste circostanze, soltanto uno sciocco avrebbe agito come ha fatto Pantani, soltanto uno sciocco avrebbe rifiutato quella sospensione quindicenale e, avrebbe scelto di rivendicare ad ogni costo la sua innocenza e avrebbe avuto una terribile depressione, e la prova è che finora nessuno dei corridori che sono stati squalificati per questo motivo ha fatto questo tranne Pantani. Da tutto ciò quindi mi sembra chiaro ribadire l’im-possibilità che le cose siano andate così.

Ma per ribadire questa mia tesi, accennerò ad un altro dato che ne porterà la conferma. Tutti i tifosi (e quindi più ancora i corridori e i direttori sportivi delle squadre) sanno benissimo che due giorni prima della fine dei tre grandi eventi ciclisti annui (Il Giro, Il Tour e La Vuelta), alcune squadre (quelle che non li hanno subiti prima) sono sottoposte a questi controlli del sangue e, sapendo anche come lo sappiamo tutti noi, che ci sono dei mezzi (utilizzo di diuretici ecc.) usati per abbassare il livello dell’ematocrito. È ovvio pensare che, date le circostanze di quell’anno (Pantani comandava la classifica con un distacco gigante sul secondo classificato), Pantani e la Mercatone 1 non avrebbero mai rischiato la squalifica, da una parte perché non avendo subito ancora il controllo sapevano di doverlo subire quel giorno e poi, perché caso mai avessero preso quelle sostanze (di cui, tra l’altro date le circostanze, Pantani non aveva alcun bisogno) avrebbero fatto di tutto per abbassare il livello dell’ematocrito; quindi questo fatto ci mostra che le cose dovettero andare in un altro modo, cioè che Marco Pantani o non aveva preso quella sostanza,

o (caso mai l’avesse presa, come da quanto abbiamo sentito in questi giorni fanno tutti, ma proprio tutti i ciclisti, compresi i dilettanti), c’era qualcosa in tutto ciò di cui lui non era affatto a conoscenza, e dunque, tutto ciò ci porta a dire che Marco Pantani in un modo o in un altro è stato ingannato da qualcuno. Non sapremo mai se fu ingannato dal medico (che forse gli fece prendere una dose maggiore  rispetto  a quella normale oppure non fece in tempo ad abbassare i livelli di ematocrito), ingannato da quelli (detti vampiri) dell’U.I.C (che gli hanno fatto il controllo in condizioni o con degli strumenti che non sono i normali. Insoma non sappiamo né come né da chi né tanto meno il perché, ma a mio avviso risulta chiarissimo che Pantani ha subito un inganno da parte di qualcuno senza che lui ne fosse a conoscenza, perché altrimenti la sua reazione sarebbe stata la stessa che, tranne lui, hanno sempre avuti tutti i ciclisti squalificati e invece lui non ha agito così.

A tutto ciò, dobiamo aggiungere le parole dette dal suo compagno di squadra, Marco Velo, riportate ieri sulla stampa, in cui affermava di avere sentito la sera prima della squalifica, delle voci che parlavano del fatto che Pantani non sarebbe partito il giorno dopo e anche quelle del suo massaggiatore, che aggiungeva che mezz’ora dopo il

controllo i giornalisti ne sapevano già il risultato; se queste due testimonianze fossero vere, allora verrebbe fuori chiaramente la creazione di un complotto vero e proprio contro “il Pirata” il che sarebbe gravissimo e farebbe scoprire i veri colpevoli della sua tragica morte. Ma anche qui ci poniamo una domanda: ma se questi due sapevano tutto ciò, perché non ne parlarono allora? Forse per la paura dei processi, delle minacce o addirittura delle costrizioni che potrebbero aver subito? Credo che questo sia un mistero sul quale si dovrebbe far luce ma che purtroppo non riusciremo a chiarire mai.  Ma i problemi di Pantani non finirono con quella squalifica, a mio avviso ingiusta, ma anzi, quella non fu che il suo inizio, a cui seguirono una angosciosa catena di sette processi in diversi tribunali italiani in cui c'era un unico accusato che si ripeteva, il povero Marco Pantani. Su questo fatto bisognerebbe discutere a lungo, soprattutto dal punto di vista tecnico, per cui bisognerebbe scrivere un articolo indipendente, e perciò qui ci limiteremo a dire che anche su questo fatto Pantani è stato trattato in modo molto diverso dagli altri corridori; infatti è stato lui l’unico a subire dei processi, con le umiliazioni al suo onore, al suo prestigio personale, alla sua fama e, soprattutto, alla sua dignità di uomo che ne derivano.

Ma, riguardo i processi, non è soltanto che Marco Pantani abbia subito un trattamento diverso dagli altri corridori ma anche da altre persone legate al ciclismo, e di questo, almeno da quanto sappiamo noi, nessuno ne ha ancora parlato. Infatti, nella sua ultima (e già tristemente famosa) lettera, Pantani affermava (fatto che è stato ribadito ieri dalla Stampa) di essere stati sia lui che altri corridori, e perfino le loro famiglie, controllati da tele-camere nascoste, fatto che, come abbiamo già accennato è stato confermato ieri dalla stampa, secondo cui quelle telecamere registrarono delle immagini dei ciclisti (alcuni perfino nudi) nelle loro camere d’albergo durante lo svolgimento del Giro 2001, immagini che (per fortuna soltanto alcune di esse), abbiamo visto tutti in TV…. E allora come mai nessuno vi ha mai indagato, dato che, questo fatto sì è chiaramente, un reato che attenta indubbiamente al diritto all’intimità, protetto dalla Costituzione, uno dei diritti fondamentali più importanti dell’uomo? Ha forse più importanza una (probabilmente falsa) frode sportiva, che un reato chiarissimo di violazione dell’intimità personale? Sinceramente più ci penso e più la cosa mi sembra incredibile.

Infine, e per non allungare molto queste piccole riflessioni, spostiamo il nostro sguardo da quel drammatico 1999 al più tragico e triste 14 febbraio 2004, giorno di San Valentino in cui, mentre tantissime coppie festegiavano felici e gioiose il loro amore in un ristorante, un cinema, un parco, ecc., Marco Pantani veniva trovato morto con l’unica compagnia di parecchie scatole di ansiolitici e di una sostanza bianca (secondo il parere dei tecnici, probabilmente cocaina) nella stanza di un anonimo residence riminese. Anche questo fatto merita, secondo il nostro parere, una riflessione molto profonda e dolorosa. E’ vero, e l'ha riconosciuto anche lo stesso Marco nella sua lettera, che negli ultimi tempi (ma sempre dopo la fine della sua vita come sportivo) aveva iniziato a prendere la cocaina, fatto che ci deve portare ad individuare le cause di una scelta così terribile e disperata. Dalla sua squalifica dal Giro '99, Marco Pantani di fronte alla disperazione causata da questo fatto, si è sentito completamente solo, abban-donato e anche tradito da tutti. Abbandonato e tradito da molti che quando lui vinceva sulle vette italiane e francesi dicevano di essere dei tifosi sfegatati ma che poi, appena sono stati resi noti i risultati di quelle analisi, sono stati i primi a crederci, si sono subito scordati delle emozioni che Pantani gli aveva fatto vivere e dell'ammirazione che dicevano provare verso di lui e hanno iniziato a criticarlo, e addirittura (e credo questo sia ancora peggio) a dargli apertamente e senza esitazione del drogato. Questo però dimenticando da una parte la presunzione di innocenza (riconosciuta ad ogni uomo per il fatto d'esserlo) e dall'altra il fatto che quella sostanza è venduta in farmacia ed è  permesso

comprarla a qualsiasi persona che non c'entri con lo sport (invece le droghe sono illegali); e soprattutto hanno scordato che se ipotizziamo che Pantani l'abbia presa, dobbiamo tener presente che questa sostanza è assunta da tutti i ciclisti (dilettanti compresi) e che dunque Pantani (caso mai l’avesse presa, particolare che non arriveremo mai a scoprire con totale certezza), non avrebbe fatto niente di diverso da quel che fanno gli altri, e che quindi, è completamente ingiusto prendere nel mirino (come hanno fatto coi processi di mezzo) soltanto lui.

Ma non finisce lì la lunga catena dei tradimenti, dato che è stato anche abbandonato e tradito dalla stragrande maggioranza (so che non si deve mai fare di tutta l'erba un fascio) dai giornalisti che, malgrado l'ingente quantità di pagine sui giornali, programmi su radio e TV che hanno potuto riempire parlando delle grandi gesta di Pantani, appena rese note le analisi hanno iniziato a criticarlo, per poi dimenticarsi di lui quasi completamente (niente articoli, niente notizie sulla situazione di Pantani in TV) fino al giorno della sua morte, momento da cui, certo, tutti sono tornati a scrivere migliaia di pagine (a volte in modo forse un po' ipocrita) dandogli del povero ragazzo morto da solo, vittima della sua depressione. Ed infine, è stato tradito dagli organizzatori del Tour de France che, nonostante lo spettacolo che Marco ha regalato al Tour, hanno deciso di vietargli la partecipazione, il che mi sembra una grandissima vergogna, che si è conclusa mercoledì scorso con l'assenza del suo presidente (il Signor Leblanc) ai suoi funerali, sinceramente credo che Marco Pantani obbiettivamente sia stato un grande campione e credo che questo fatto dovrebbe essere bastato affinché Leblanc fosse venuto  a dargli l'ultimo saluto.

E allora, cos'è successo? Davanti a tutti questi fatti, Pantani ha dovuto sentire un grande vuoto attorno, nel vedere che quello che era stato il suo mondo per il quale aveva fatto così tanti sacrifici, gli aveva voltato le spalle e così, è piombato in una terribile depressione senza uscita. E da lì all'assunzione di droghe (concretamente di cocaina in questo caso) c’è soltanto un passo. Come tutti noi sappiamo (almeno dicono così perché io non le ho mai prese), le droghe sono allucinogeni che quando si prendono danno una sensazione d'euforia che fa dimenticare tutti i problemi ma che, nello stesso tempo, distruggono ogni giorno di più (come ha riconosciuto lo stesso Marco nella lettera). Forse Pantani ha cercato di dimenticare tutti i problemi derivati dalla squalifica (i processi, i tradimenti, le critiche ingiu-stificate, ecc.) allontanandosi dal suo mondo e da quelli che sono stati i suoi veri amici di tutta una vita, per rifugiarsi tra le braccia di persone completamente indifferenti a lui, alle sue gesta e al suo sport, soltanto perché gli fornivano quelle sostanze che gli facevano, almeno per qualche ora, dimenticare tutto il suo calvario. Comunque, la cosa più chiara è che non dobbiamo giudicarlo per questo, perché quando una persona è depressa (e dunque malata) non è consapevole dei suoi atti e del suo atteggiamento e poi perché se ognuno di noi dovesse trovarsi nella stessa situazione, non sappiamo come reagirebbe. Nella sua lettera, Marco ha chiesto a tutti noi, i suoi veri tifosi, di parlare, e con queste piccole riflessioni credo di averlo già fatto.

Mi resta da dire soltanto che la morte di Marco Pantani è stata per lui la fine dell'incubo che viveva da 5 anni, e per noi tifosi, la fine del sogno di vederlo tornare sulle montagne come il grandissimo campione che è sempre stato.

Ricorderò sempre l'enorme simpatia con cui si è rivolto a me quando sono andata ad incontrarlo alla Vuelta di qualche anno fa e che, quando nel prossimo Giro d'Italia il Mortirolo (quest'anno nominato Cima Pantani) sfiderà  maestoso i corridori, ricorderemo le sere d'oro di Marco con pena e tristezza, perché ci mancheranno quegli attacchi che in passato ci hanno fatto vibrare così tanto. Infine, è chiaro che mercoledì scorso a Cesenatico non abbiamo dato l'ultimo addio a Marco Pantani, perché ora lui è lassù, in Paradiso, finalmente in pace, e sono convinta che dal cielo guarderà tutti noi tifosi, con quella faccia dolce e sorridente che aveva quando gareggiava e quando l'ho incontrato alla Vuelta. Così, è chiaro che il suo ricordo (con le sue gesta, la sua costanza, i suoi sacrifici come ciclista e i suoi valori umani) rimarranno sempre nella nostra anima. Spero che questo piccolo omaggio gli sia piaciuto e dato che la sua morte non significa un addio, ci restano soltanto da dire con tutto il nostro affetto due parole: Ciao Marco.

 

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